Quando in una manciata di minuti dall’inizio di un film, l’attore principale mette in bella mostra un recitazione fieramente sopra le righe, per quanto di ottimi livello, e viene mostrato a defecare di fronte alla macchina da presa, è come se sullo schermo si accendesse un allarme, una spia rossa dal significato ben preciso: attenzione, pericolo di esibizionismo pseudo-autoriale, prestare la massima attenzione. Il titolo in questione è Child of God, ultima fatica registica del fin troppo prolifico James Franco, sempre diviso tra recitazione, filmmaking e arte, senza contare il presenzialismo ai grandi festival da cui ormai sembra quasi non poter più mancare. Così come non è mancato alla 70. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove il titolo è stato presentato oggi in concorso. Peccato che non sempre, anzi quasi mai, l’iperattività sia indice di abilità e consapevolezza nell’uso dei propri mezzi espressivi, tanto più quando questi ultimi trasudano l’ansia di dimostrare la propria levatura stilistica e autoriale.
Adattamento del romanzo omino di Cormac McCarthy (scrittore che ha già prestato al cinema Non è un paese per vecchi e The Road), Child of God segue il percorso degenerativo di un personaggio abituato a vivere agli estremi del sistema sociale. Cresciuto solo col proprio dolore e abituato a vivere di stenti, rubacchiano il poco necessario alla propria sussistenza, Lester Ballard potrebbe apparire come un innocuo scemo del villaggio in una delle tante cittadine montane e tradizionaliste che affollano gli Stati Uniti. In realtà il suo distacco affettivo dalla comunità lo ha gettato in uno stato selvatico da cui non sembra potersi più emancipare. Il film lo segue mentre cede sempre più ai propri istinti più bassi e depravati, superando di gran lunga anche il livello animale.
Non è certo la prima volta che un’opera cinematografica tenta di rappresentare un “mostro” dal suo stesso punto di vista, o perlomeno raccontandolo così da vicino da limarne la presunta disumanità e restituendogli se non la dignità, una certa empatia e una diversa comprensibilità. Il problema del film di Franco è che lo fa con manierismo, in modo quasi pretestuoso, come se ancor prima dell’urgenza di scavare dentro al personaggio, venisse quella di stupire e scandalizzare il pubblico con le sue bizzarrie e le sue deviazioni mentali. Lester Ballard non viene “abbracciato” dallo sguardo della regia ma quasi esibito, messo in mostra anche più di quanto non farebbe un documentario sulla fauna di un ambiente boschivo.
Elegante la fotografia e anche l’interpretazione, spinta all’estremo ma mai ridicola, di Scott Haze, protagonista quasi assoluto della scena. Ma entrambi gli elementi non bastano a scacciare l’impressione che Child of God sia in prima battuta un tentativo di shockare e dimostrare una libertà artistica che, al contrario, sembra più che altro il frutto dei preconcetti su come dovrebbe apparire il cinema indipendente, in particolare se americano.
Anche quest’anno ScreenWEEK è al Lido per seguire la 70. Mostra del Cinema di Venezia. Continuate a seguirci per tutti gli aggiornamenti dal Festival.