Anche quando fanno un film apparentemente minore i fratelli Coen regalano grande cinema. È sempre stato così, sarà probabilmente sempre così e lo conferma Inside Llewin Dawis, loro ultimo lavoro, appena presentato al festival di Cannes. Si inizia con una canzone, una intera, non solo qualche secondo, primo piano su di un trentenne che con la sua voce e la sua chitarra riesce a toccare i cuori di chiunque sia nel locale come solo il folk americano fatto bene sa fare. Applausi. Il proprietario del locale (a cui i Coen si divertono a dare lo stesso nome del regista italiano Pappi Corsicato) gli dice che c’è qualcuno ad attenderlo fuori, un uomo “con il vestito”, un “suo amico”. È l’inizio di una vera e propria ballata dentro la vita del protagonista, quel Llewein Dawis che del resto scorpriremo poco dopo che ha intitolato proprio così il suo primo album solista “Inside Llewin Davis” (che tanto ricorda l’Inside Dave Van Rock di Dave Van Rock alla cui vita il film è alla lontana ispirato).
I soldi sono pochi. Non ha casa. Vive di divano in divano sulle spalle di amici e conoscenti. Prima suonava in coppia, ma il suo partner si è suicidato da poco. Da solo le cose purtroppo non funzionano, ma lui continua a provarci. Il problema è che Llewin Davis, più che vittima della sfortuna o delle persone che gli stanno intorno, è vittima di sé stesso. È un uomo che lascia che le cose accadono, spesso abbandona prima ancora di aver provato. Sembra il fratello minore di Larry Gopnik, il personaggio che i Coen avevano creato per A Serious Man, solo che lui almeno ha la sua chitarra e la sua musica, per quanto a volte anche lui sembra non crederci troppo così come Gopnik con la religione.
Sembra una storia senza picchi narrativi, e lo è, ma i Coen, come detto, sono grandiosi e così ti tengono incollato davanti allo schermo realizzando continui film nei film. Quasi ogni scena merita da sola più di tanto cinema contemporaneo. Da una parte sembrano amare i loro personaggi, dall’altra sembrano prenderli in giro. E questa ambiguità non viene mai risolta, non si capisce se si fanno beffe di un Justin Timberlake con i basettoni o lo stiano elevando a straordinario caratterista (sembra un po’ la storia del Brad Pitt elastico di Burn After Reading), non si capisce se quella musica country su cui è fondato il film sia per loro sempre eccezionale, o a volte tremendamente banale e si debba sorridere ascoltandola o vedendone gli interpreti.
I Coen respirano sarcasmo e lo ridanno indietro, lasciando allo spettatore la possibilità di trovare la propria chiave interpretativa. Lo sguardo che ha lo straordinario protagonista Oscar Isaac quando, a tavola, viene improvvisamente accompagnato dal canto dalla padrona di casa, il dialogo con il ginecologo che gli dice “questa volta è gratis” (e solo dopo scopriremo perchè), l’arresto improvviso del valletto di John Goodman in autostrada, l’incidente con il gatto o la scelta di non svoltare per quella città che forse significherebbe un cambio di vita, ma che si decide di non affrontare, sono sequenze così cariche di cinema che a volte viene voglia di chiedere qualche secondo di pausa ed applaudirle singolarmente. E se è vero che il finale, nella sua ricerca di circolarità, sembra forse un po’ troppo didascalico, dall’altra forse si può giustificare il tutto con la necessità di lasciare dire al protagonista quella frase, “au revoir”, arrivederci, sarò ancora qui, sempre triste, sempre con il sorriso, che forse era l’unica conclusione possibile, ritornello cantato a loop di una malinconica canzone sulla vita di una persona qualsiasi.
Voto: 4/5
Anche quest’anno ScreenWeek è al Festival di Cannes per raccontarvi tutto il cinema d’autore e gli eventi della Croisette in diretta: trovate tutta la copertura nella nostra Sezione Speciale.