Ci si può sentire più vivi durante la guerra, più uniti tra gli spari e più liberi sotto le bombe? È quanto si chiede la regista Aida Begić nel suo amaro Buon anno Sarajevo, in cui ripercorre con sguardo estremamente critico e potenzialmente tragico la Bosnia contemporanea. Una realtà descritta come allo sbando, segnata forse più dalle ferite del degrado sociale ed economico che non dalle cicatrici lasciate dal conflitto.
In questo mondo si muovono la giovane Rahima e suo fratello ancora adolescente Nedim, due orfani di guerra che vivono ai margini di tutto. Nonostante venga da un passato punk e da problemi di tossicodipendenza, Rahima sembra aver abbandonato i colpi di testa per dedicarsi al fratello e per abbracciare la religione musulmana. Nedim non sembra però apprezzare troppo i sacrifici della sorella, non accetta la sua scelta di portare il velo e sembra deciso a commettere tutti gli errori da cui lei cerca di difenderlo. A complicare ulteriormente il loro rapporto c’è una società assolutamente ostile, corrotta, opprimente e oppressiva, specialmente nei confronti dei più deboli. Il loro dramma si interseca con quello vissuto dall’intero Paese, evocato dalle notizie che passano sui mezzi di informazione, mentre i ricordi del conflitto compaiono in ordine sparso, come pezzi di filmati amatoriali a volte terrificanti, altre addirittura rassicuranti, familiari, consolatori. Questo è evidentemente il contrasto più forte espresso dalla regista: quello tra un presente perennemente desaturato, squallido e grigio e tra un passato fin troppo ricco. Ricco sicuramente di panico e di orrori, ma anche di un qualcosa di vitale che sembra invece essersi perso nel presente. Un punto di vista ribaltato per evidenziare le storture di una realtà sempre più deviata, che in un certo senso non sembra corrispondere solo a quella bosniaca ma può estendersi in modo piuttosto ampio alla nostra attualità.
L’intuizione, sul piano teorico, appare affascinante e sconvolgente, ma purtroppo non rende altrettanto su quello cinematografico. Per tutta la durata del film, infatti, la macchina da presa non fa che seguire da vicino i movimenti di Rahima, con un intento non documentaristico ma comunque di stringente realismo. Contemporaneamente la storia della ragazza sembra inserirsi sempre di più in una spirale distruttiva, che lascia intuire risvolti tragici. I nodi creati dalla trama invece non si stringono intorno alla protagonista né si sciolgono, lasciando il film come sospeso in questo limbo dove anche i video amatoriali della guerra compaiono sporadicamente e non riescono a scandire il ritmo della narrazione. Tutto rimane perciò un po’ piatto e smarrito, più o meno come la protagonista del film. L’elemento più interessante di Buon anno Sarajevo rimane dunque quest’atmosfera di disfacimento e la riflessione sulla guerra, non come evento tragico in sé ma come esperienza capace di inaridire le esistenze di chi l’ha vissuta tanto da portare quasi al rimpianto.
Il film di Aida Begic è nelle sale dal 3 gennaio, distribuito da Kitchenfilm.