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Torino 2012 – Holy Motors, la recensione del film di Leos Carax

Pubblicato il 24 novembre 2012 di emanuele.r

A Cannes in molti ne parlavano come di un possibile vincitore di un premio importante. A Locarno, il suo regista Leos Carax ritirò un premio speciale. Finalmente, e in attesa di una distribuzione, arriva in Italia Holy Motors, al festival di Torino nella sezione Torino XXX, un regalo di compleanno ai 30 anni della manifestazione nel segno dei film di alcuni dei registi più amati e coccolati dal festival.

Il film racconta (ma è una parola azzardata) la giornata di un uomo che a bordo della sua limousine viaggia di appuntamento in appuntamento, impersonando di volta in volta un personaggio sempre diverso, un momento, una vibrazione dello spettacolo – più che del cinema – sempre nuova.  Scritto dallo stesso Carax, Holy Motors è un caleidoscopio bizzarro, all’apparenza inconcludente, un viaggio che richiama quello di Cosmopolis, ma dentro l’arte che cambia assieme agli esseri umani.

Costruito come un programma cinematografico dei primi del ‘900, mettendo insieme spezzoni, scene, cortometraggi con tante di entr’acte memorabile (e immagini che proprio dalla preistoria del cinema vengono), Holy Motors è una riflessione sull’evoluzione, il progresso e il declino del cinema, i cambiamenti dell’arte della performance e allo stesso tempo dello spettatore: Carax cerca disperatamente, ma con piglio eroico, di ribaltare il detto di Cocteau sul cinema come morte al lavoro, raccontandolo invece come la vita all’opera, che fallisce, e avolte si spegne ma sa sempre rigenerarsi. Problematico e non di certo solare come The Artist, Holy Motors immagina un universo fatto di scene da interpretare, di attimi di cinema che vivono separatamente e che vanno riempiti, di vita che è inestricabile da quell’universo parallelo che è la settima arte.

Carax mette in scena “la bellezza del gesto”, l’arte per l’arte e il corpo di quel Lon Chaney contemporaneo che è Denis Lavant (ma anche quello di Eva Mendes) come spettacolo, ma allo stesso tempo va al di là del gioco manierista e arriva a immaginare un mélo di fantasmi (del cinema e non solo) che si chiude nell’incredibile finale tra le macerie della Samaritaine, una volta il più bel grande magazzino del mondo, non a caso progettato agli inizi del ‘900. Holy Motors, come costume del suo autore, gioca a spiazzare di continuo, a confondere, a far chiedere allo spettatore che cosa stia vedendo; ma poi riesce a incantarlo restituendo il senso ipnotico alla base dei film, l’affabulazione del cinema puro. E in tempi di melma predigerito, è praticamente un miracolo.

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