Un uomo ripreso da vicino, dal basso, come fanno i reporter d’assalto, che esprime il suo timore di non essere rappresentato in modo abbastanza aderente alla verità. Una voce fuoricampo, presumibilmente dietro all’obiettivo, interroga l’uomo su quanto abbia fiducia nel filmmaker. Dunque lo stacco di montaggio che svela la presenza di una seconda telecamera, e la natura della scena precedente, con una semisoggettiva del regista intento a riprende il proprio interlocutore. Avi Mograbi, apprezzato documentarista israeliano, ha voluto cominciare così il suo Once I Entered a Garden (Dans un jardin je suis entré), presentato in anteprima al VII Festival Internazionale del Film di Roma, nella bella sezione sperimentale CinemaXXI. Non che il regista (già autore dello splendido Z32) non avesse già meritato la nostra fiducia, ma se l’è conquistata ancora una volta scendendo in prima linea in questo nuovo film, legato come i precedenti al conflitto isrealo-palestinese e anche stavolta volto a indagare nella maniera più intima, e dunque più sincera possibile, una della realtà più complicate, ideologizzate, ostiche e ostili del mondo contemporaneo. Una realtà che per la sua criticità sembra precludere ogni chance di obiettività (ma quale realtà in fin dei conti non lo è), e che il documentarista Mograbi continua invece ad esplorare proprio gettando via ogni pretesa di distacco, buttandosi anima e corpo nelle sue opere. Coinvolgendo il suo volto, la sua persona, i suoi affetti e in questo caso perfino la storia della sua famiglia, punto di partenza per riportare a galla le memorie perdute (e purtroppo da lui mai vissute) di un passato in cui il Medio Oriente era un’area pacificamente multietnica, dove i confini non avevano ancora il sapore di quella guerra e di quel sangue che oggi rendono quasi impossibile il loro superamento.
L’incontro, talvolta il tacito scontro, di queste due personalità basta da sé a riempire di significato e di una splendida narrazione il documentario di Mograbi. Ma il regista non si accontenta, e vi aggiunge uno slancio ancora più forte e sentimentale, intervallando le riprese di lui e Alì con delle immagini in Super8 della Beirut moderna, con tutte le sue evidenti ferite, accompagnate da una voce di donna che, in francese, scrive lettere al suo perduto amore, che sono anche il pianto di un matrimonio (reso) impossibile tra l’identità araba e quella ebrea. Il contrasto tra il sentimento di nostalgia evocato dal Super8 e la voce di donna, e la consapevolezza dell’attualità di quel lamento, chiude il cerchio aperto dal regista, diventando il suo stesso canto di nostalgia per le non-memorie di tutte le vite separate ancor prima dalla nascita dalle rispettive appartenenze, e dai confini tracciati con virulenza da una Storia ormai incrostata di dolore.
Non ci sarebbe stato modo più lirico e onesto (nonché incredibilmente interessante) di far percepire allo spettatore, senza retorica, la nostalgia per un altro mondo possibile. Un mondo, tra l’altro, che i due adulti del film hanno perso per sempre, ma che invece vive e prospera nella piccola Yasmine, tenero simbolo di un amore che può resistere a tutte le catastrofi. Un altro gioiello nella filmografia di un regista geniale, che gira documentari su di sé, e attraverso di questi abbraccia il mondo. Ovviamente ancora privo di una distribuzione che lo porti nelle sale italiane al di là del festival (nonostante la produzione sia anche europea, per l’esattezza svizzera e francese).