Non è usuale che uno scrittore affermato, per di più di una tipologia particolare come quella del giallista, passi dietro la macchina da presa di un lungometraggio. Carlo Lucarelli per farlo ha scelto il suo romanzo visionario e forse il più bello, L’isola dell’angelo caduto, e lo presenta nella sezione Prospettive Italia del 7° festival del film di Roma.
Il protagonista è un commissario inviato per punizione su un’isola sperduta di confino sotto i primi anni del regime fascista. Qui dovrà risolvere una serie di delitti che si vuole nascondere, ma soprattutto dovrà resistere all’atmosfera quasi demoniaca dell’isola. Scritto dallo stesso Lucarelli con Giampiero Rigosi e Michele Cogo, L’isola dell’angelo caduto è un giallo d’ambientazione storica che, oltre alle consuete letture parallele del presente, fa una disamina del fascismo da un punto di vista più ambientale che politico.
La grande isola al centro del film, ispirata evidentemente a Ventotene, allo stesso tempo luogo di naturale splendore e carcere opprimente (è soprannominata la Cajenna), è lo specchio dell’Italia di quegli anni e degli anni in cui il romanzo venne scritto, incarcerata in un una gabbia che viene ritenuta dorata, isolata dalla civiltà lasciando i propri abitanti a chiedersi se sia possibile accettare passivamente o reagire a una follia collettiva. Ed è proprio la follia, l’elemento portante di questo giallo politico, che – come il libro – si fa forza delle atmosfere orrifiche, delle ossessioni e dei tic, dei ritratti, più che dell’intreccio. Per fare questo Lucarelli cerca di forzare i limiti “realistici” del cinema medio italiano, giocando con la tecnica, il montaggio di Daniele Di Maio, le digressioni e la musica di Gianni Maroccolo.
Ma purtroppo, come regista valga meno che come narratore, e la mano acerba e impreparata si vede proprio nella gestione delle idee originali, nei tocchi registici, nella direzione degli attori spesso lasciati alla teatralità. E’ un peccato perché le molte incertezze vanno a colpire proprio il lato visionario e impalpabile che avevano reso notevole l’opera scritta, lasciando allo spettatore la sensazione di uno scritto intruso in un mondo che non gli appartiene, quello del cinema.
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