Era il 2009 quando il giovane regista Claudio Giovannesi presentava al Festival Internazionale del Film di Roma un interessante documentario intitolato Fratelli d’Italia, girato nel contesto periferico di Ostia e incentrato su tre ragazzi di origine straniera, con tre storie molto diverse alle spalle ma tutti a loro modo alle prese con i problemi della cosiddetta integrazione. Quest’anno lo stesso regista torna al festival capitolino con un altro titolo, stavolta in concorso, che recupera il discorso aperto nell’opera precedente, ma lo tramuta in un lungometraggio di finzione, molto aderente allo stile del documentario eppure dotato di uno slancio narrativo in più.
Il film si chiama Alì ha gli occhi azzurri, e ciò che più sorprende sin dalle sequenze iniziali, è la scelta di Giovannesi di non mantenere solo gli spunti offerti da Fratelli d’Italia, ma anche lo stesso ragazzo protagonista del terzo episodio, Nader, e i componenti della sua famiglia egiziana: c’è perfino una scena in sala da pranzo che ricalca in maniera quasi fedele una già riportata nel precedente lavoro di non-fiction. Lo stile della regia si aggrappa fortemente a una sensazione di pedinamento della realtà, e non si appella neppure alla fotografia (curata da Daniele Ciprì), che rimane volontariamente “sporca”, affatto patinata o abbellita in modo artificioso. Ciononostante, il film si distanza subito dalla formula del documentario, aggravando sin dall’incipit la storia del giovane Nader con elementi fortemente conflittuali e drammatici. Il racconto si apre sul litorale romano, dove il protagonista, insieme al suo migliore amico italiano Stefano, si appresta con estrema tranquillità a commettere una serie di piccoli reati, per poi presentarsi a scuola come nulla fosse. La sua vita è circondata dal degrado materiale e umano di una periferia algida quanto i toni freddi delle immagini. Come se ciò non bastasse a indurlo verso la fatidica “cattiva strada”, al suo dramma personale contribuisce anche la famiglia, che si rifiuta di accettare la sua ragazza non musulmana e altri tratti caratteristici di un’italianità deteriore come quella che permea le aree di maggior disagio economico e sociale.
Come già avveniva nel precedente documentario, in poche parole, Nader viene assunto come simbolo del conflitto identitario degli immigrati di seconda generazione, solo che in questo caso le esigenze narrative della finzione esasperano i contorni più sfumati (e in un certo senso anche più sorprendenti) della realtà, caricandoli non solo di ogni tipo di frattura socio-culturale, ma anche di elementi presi a prestito da un immaginario cinematografico consolidato. La storia di Nader e Stefano, insomma, diventa un compendio di problematiche di attualità (dal crocifisso a scuola allo sfruttamento degli immigrati da parte di altri immigrati, al razzismo e al conflitto tra le diverse etnie), mentre la trama si dipana seguendo il filo del crime movie, per fortuna senza finale tragico allegato. È come se il film non riuscisse a trovare un solido equilibrio tra la sua esplicita volontà anti-estetizzante e l’inevitabile estetizzazione legata alla scelta di un certo impianto drammatico, o di simbologie forti come i finti occhi azzurri del protagonista, su cui la macchina da presa si sofferma volentieri soprattutto nella prima parte del film. Il risultato è sempre interessante, e lodevole nella misura in cui si sforza di portare alla luce realtà poco esplorate del Paese, anche a livello artistico. D’altra parte, facendo un confronto tra i due film, è difficile non continuare a preferire il documentario che sapeva di finzione, rispetto alla finzione che sa di realtà.
In concorso al VII Festival Internazionale del Film di Roma, Alì ha gli occhi azzurri arriverà nelle nostre sale il 15 novembre, distribuito da BIM.