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Entrare nel mondo di un adolescente di origine straniera, che vive ai margini di una grande metropoli il conflitto interno ed esterno tra la sua identità italiana e quella araba dei propri genitori. Un’impresa delicata ma di grande pregnanza e attualità, che il regista Claudio Giovannesi ha affrontato ben due volte: prima con il documentario del 2009 Fratelli d’Italia e ora con il film Alì ha gli occhi azzurri, un’opera di finzione ma con una forte presa sulla realtà. E in particolare sulla realtà di Nader, immigrato di seconda generazione che entra in rotta di collisione con i parenti a causa del suo amore per una ragazza italiana, non accettata dai genitori e in particolare dalla madre legata alle tradizioni. Presentato in concorso al VII Festival Internazionale del Film di Roma, il film è da ieri anche nelle sale. Abbiamo avuto il piacere di intervistare in modo molto approfondito il promettente regista, Claudio Giovannesi.
Claudio, parlaci della forte continuità tra il documentario e il film.
Dopo che abbiamo finito le riprese del documentario, avevo voglia di proseguire nel racconto di Nader, perché mi sembrava emblematico delle contraddizioni che può vivere un adolescente di seconda generazione che vive in un territorio marginale e un po’ periferico come Ostia, dove la presenza di immigrati è numericamente più significativa rispetto a quella registrata nei centri delle città. Volevo approfondire il tema, con l’obiettivo e l’ambizione di riuscire non solo a raccontare la quotidianità del protagonista, ma anche il futuro dell’Italia. Sennonché, dopo le riprese Nader è scappato di casa per ben tre mesi, a soli 16 anni, e questa storia mi ha letteralmente conquistato. Il suo amore contrastato, tipo Romeo e Giulietta, con una ragazza italiana continuava, e aveva un potenziale molto più ampio dei 35 minuti di montaggio che gli avevamo dedicato in Fratelli d’Italia. La scommessa, a quel punto, era riuscire a far passare Nader dalla totale incoscienza della macchina da presa che gli avevo chiesto per il documentario, alla coscienza del conflitto e del paradosso che stava vivendo. Alla coscienza di portare in scena un personaggio che corrispondeva a lui, ma allo stesso tempo di doversi presentare come un attore consapevole del proprio ruolo.
Com’è stato dunque il lavoro con Nader e anche con la sua famiglia, dato che hai coinvolto di nuovo anche lei nel film?
Il punto di partenza è stato il rapporto di fiducia stabilito già nel documentario, e la loro grande generosità nell’autorappresentarsi, nel mettere in scena sensazioni e sentimenti che loro vivevano realmente. Questo è stato un grande atto di umanità. Importante è stata anche la nostra intenzione di non inventare nulla: presentiamo un gruppo di adolescenti così come sono nella vita, anche con scene che possono risultare forti o difficili. Abbiamo cercato di non ammorbidire niente, di non condannare e di non assolvere ma di mostrare quello che è la realtà, attraverso un lavoro di ricerca e di scelta che è ben superiore all’invenzione. Tutto quello che raccontiamo nel film è ciò che accade oggi in Italia in quei luoghi. Il mio sguardo sui personaggi però è velato di purezza: anche in una scena molto dura come quella in cui tentano di rapinare una prostituta, si vede che i ragazzi la vivono come un gioco, e che la pineta è un po’ il loro parco giochi. Credo che la loro età permetta di guardarli ancora con questa innocenza. Prima delle riprese abbiamo fatto 4 mesi di prove, perché i ragazzi dovevano imparare a recitare loro stessi, raggiungendo il massimo grado di realtà possibile. Abbiamo fatto prove ogni giorno, e quando non si provava Nader e Stefano, il suo migliore amico italiano, dovevano provinare i personaggi secondari, quindi è stato un lavoro continuo e non sempre facile per dei ragazzi che non sono abituati a questa costanza nemmeno a scuola. Nella fase di riprese, però, abbiamo scelto di mantenere totale libertà: non abbiamo usato il ciak, abbiamo cercato di avere macchine poco ingombranti per introdurci in luoghi reali che preesistevano a noi, in modo tale da lasciare ai ragazzi il loro spazio, pur avendo ben chiaro l’obiettivo.
È stato più difficile far emergere l’elemento narrativo nel precedente documentario, o immettere la realtà in questo film di finzione?
Centomila volte fare questo film di finzione. È un processo molto più delicato e molto più rischioso. Il documentario lo abbiamo girato in tre: io, un operatore che era anche il direttore della fotografia, e il microfonista, e insieme abbiamo seguito ciò che stava accadendo di fronte a noi. La struttura narrativa, in quel caso, la decidevano Nader e gli eventi, era davvero una specie di reportage, di pedinamento. La difficoltà stava nello scomparire, nel far dimenticare la presenza della macchina da presa, ma quella è stata superata in fase iniziale. Stavolta, invece, avevamo l’obbligo morale di restituire la realtà di quello che vedevamo, ma facendo i conti con la macchina del cinema, che è quanto di più finto si possa immaginare, un baraccone di camion, di persone che lavorano, in cui è impossibile far scordare che si sta girando. Ecco perché ci siamo inventati le nostre regole, come l’assenza del ciak. È stato un gioco a togliere, ma molto complicato. Anche perché abbiamo girato a Ostia in inverno, che in quella stagione, col mare, ha una luce meravigliosa che rende tutto un limbo, ma concede poche ore di luce e un clima davvero rigido. I ragazzi si dovevano svegliare prestissimo tutti i giorni e dopo le prime settimane di ripresa hanno cominciato a sentire la fatica reale. Questo in compenso ha aiutato molto Nader a interpretare il personaggio, rivivendo la stanchezza di quei giorni in cui non viveva più a casa.
Quindi hai sperimentato una forma molto particolare di documentario misto a finzione.
Sì, ho capito che in questo tipo di lavoro il confine tra le due cose diventa molto labile e molto personale. L’obiettivo è sempre raccontare ciò che si ha difronte, cambia solo il modo in cui si usa il mezzo cinema per ottenerlo.
Come hai lavorato per trovare invece il tuo registro, il tuo stile, considerando magari anche altri precedenti cinematografici?
Lo stile è stato subito subordinato all’obiettivo di cui abbiamo parlato. Col direttore della fotografia, Daniele Ciprì, non abbiamo “scelto” la macchina a mano per esigenze estetiche o per dare un look particolare al film: è la macchina a mano che è emersa come mezzo per ottenere la vicinanza a questi personaggi, star loro addosso e allo stesso tempo lasciarli liberi di muoversi ed esistere a prescindere dal cinema. La macchina doveva assumere un valore di presenza, di testimonianza, come se fosse un personaggio tra i personaggi. Ciò ha determinato la scelta di quella a mano, delle ottiche e della stessa luce, che non poteva limitarci, e Ciprì che è un genio è riuscito a ottenere una luce splendida usando praticamente nulla. Poi, ovviamente, amo molto il cinema che cerca di lavorare sulla verità, come quello di Garrone, il modo di usare la macchina da presa dei fratelli Dardenne, Abdellatif Kechiche: sono esempi molto alti con cui non voglio assolutamente paragonarmi, ma che mi hanno aiutato a trovare la strada.
Rispetto a quando è uscito Fratelli d’Italia, nel 2009, il tema dell’immigrazione sembra essere stato quasi eclissato da quello della crisi. Sembra perciò ancora più difficile fare uscire adesso un film come questo.
Penso che i due temi siano collegati: siamo una società multietnica ma non ancora multiculturale, e questo ci fa stare indietro rispetto a tutta l’Europa. Obama è un esempio lontano anni luce da noi. Al di là dei grandi problemi finanziari, quelli che ancora ci ostiniamo a chiamare “immigrati”, sono un tessuto sociale nuovo che va sfruttato per tutta la ricchezza che ha da offrire. Ovvio che ci possono essere conflitti, com’è successo nelle banlieue parigine, ma il conflitto può essere anche portatore di ricchezza.
A questo proposito, se nel documentario del 2009 era quasi ovvio non proporre una soluzione alle storie dei protagonisti, in questo caso è stato più difficile non risolvere il conflitto e scegliere un finale abbastanza aperto?
Non mi interessava proporre una soluzione: quando si vive un contrasto anche estremo tra due culture, tra un desiderio per se stessi che magari è in aperto conflitto con quello che si ha per i propri cari e per la propria sorella, non c’è una vera e propria scelta da compiere in modo da risolvere tutto. Sarebbe retorico, moralistico e anche finto. Consolatorio forse per il pubblico, ma disonesto nei confronti dei personaggi. Per questo facciamo finire il film con un sentimento chiaro, almeno spero, che è la consapevolezza di Nader delle proprie contraddizioni.
Però il film si chiude con l’assenza, forte, di Nader dalla casa dei suoi genitori.
Sì, perché anche se s’intuisce che vi farà ritorno, non potrà mai essere il figlio che vuole sua madre. Non potrà cioè appartenere a quell’ideale di famiglia che spesso hanno gli immigrati di prima generazione.
E i genitori di Nader come hanno preso il film?
Loro sono due angeli, tra le persone più belle che mi abbia mai incontrato nella mia vita. Hanno fatto questo film solo per l’amore del figlio, dato che hanno percepito solo un rimborso spese. La cosa davvero commovente è che la vera fine del film è stata al Festival di Roma, all’Auditorium, quando per la prima volta la madre di Nader ha incontrato la sua ragazza italiana, Brigitte. Noi avevamo la pelle d’oca.
In concorso al VII Festival Internazionale del Film di Roma, Alì ha gli occhi azzurri è nelle nostre sale dal 15 novembre, distribuito da BIM.