L’8 agosto del 1991 Bari si è trovata a dover fare i conti con una visita decisamente inaspettata. Quel giorno una nave stracolma di gente è giunta nel porto della città. Persone ammassate ovunque, in qualsiasi punto offrisse uno spazio più o meno comodo. Quella nave era la Vlora, un vecchio e malandato mercantile di ritorno da Cuba. I suoi occupanti erano profughi albanesi, che avevano approfittato di una sosta fatta dalla nave a Durazzo per “chiedere un passaggio” e fuggire da un paese che ormai gli andava stretto. Una fuga verso la terra del sogno, conosciuta con il nome di Italia.
Il documentario diretto da Daniele Vicari, presentato alla 69° edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, parla di questo, di uno dei più grandi sbarchi di immigrati clandestini che la nostra storia ricordi. Nel farlo si affida alle voci di chi quella vicenda l’ha vissuta in prima persona (come il ballerino Kledi Kadiu), perché era presente su quella nave o perché ha dovuto affrontare (e in qualche modo arginare) un’emergenza che, da un momento all’altro, era piombata sul nostro territori. Queste voci sono alternate ad una serie di immagini di repertorio, frutto di una lunga selezione, che riescono ad offrirci la cronaca degli eventi immergendola in una sorta di limbo senza tempo. La Nave Dolce (questo perché la Vlora trasportava un carico di zucchero) è infatti un film che non si limita solo alla semplice narrazione degli eventi, ma la usa per riflettere su una situazione ancora presente nel nostro paese.
A questo regista va sicuramente il merito di aver saputo spiegare uno spaccato di storia senza cadere nella verbosità o nella semplice e fredda cronaca. La cosa che stupisce di questa pellicola, infatti, è che presenta al suo interno una dinamicità unica. Tramite l’accostamento di filmati dell’epoca e semplici interviste, fatte sullo sfondo di una parete bianca (spesso accompagnate da suoni di sottofondo che cercano di accompagnare le parole), Daniele Vicari è riuscito a creare delle vere e proprie immagini in movimento, che si palesano concretamente nella testa dello spettatore, creando una sorta di film nel film.
La speranza di chi è partito lasciandosi tutto alle spalle, la paura di chi ha dovuto scontrarsi con l’imprevisto, la delusione e la rabbia di chi si è trovato di fronte ad una realtà ben diversa da quella che aveva immaginato e le contraddizioni di uno stato che non è riuscito a capire che le prese di posizione in alcuni casi sono inevitabili e necessarie (come quella di Enrico Dalfino, allora sindaco di Bari). Tutto all’interno di quest’opera viene trattato con un rispetto tale che è impossibile rimanere indifferenti.