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Venezia 69: To the Wonder, la recensione in anteprima

Pubblicato il 03 settembre 2012 di emanuele.r

E’ da sempre una presenza impalpabile, quasi un fantasma, quella di Terrence Malick, ma il suo non esserci o nascondersi ha creato un mito che il suo cinema non ha fatto altro che ampliare. Così, averlo alla 69^ Mostra del Cinema di Venezia con To the Wonder, suo 2° film in 2 anni (lui, che tra il 2° e il 3° film ne ha lasciati passare 20), ha a che fare allo stesso tempo con un rito sacrale che di conseguenza lascia spazio anche alla reazione iconoclasta di coloro che a fine film hanno fischiato, come anche per il capolavoro The Tree of Life che l’anno scorso vinse la Palma d’oro a Cannes.

Stavolta la storia e i temi virano all’intimità: protagonista infatti è una coppia che dalla Francia si trasferisce in America per assecondare il lavoro di lui. Ma li la donna si sente sola e distante dal compagno, decidendo di andarsene e lasciando lui in compagnia di un’altra donna. La trama, comunque, non serve raccontarla, visto che la sceneggiatura dello stesso Malick si serve di una storia d’amore vicina al melodramma per costruirsi come un poema audiovisivo, in un modo simile a quello del film precedente, di cui To the Wonder è una sorta di prosecuzione complentare, un risvolto, un lato B.

Infatti, il film usa parti del girato di The Tree of Life tagliate nel precedente montaggio e le integra con nuovi personaggi e nuovi attori spostandosi su un altro piano concettuale: se infatti quello raccontava nascita e movimento del cosmo e del creato, qui si concentra sulla natura amorosa dell’essere umano, mettendo in scena la disperata lotta contro la solitudine di alcuni personaggi che cercano di aggrapparsi all’amore, alla fede, al bisogno di sentirsi vivi per non ammettere di non esserlo, ai quali basta incontrarsi per un attimo per non morire. Il rischio enorme che corre Malick è di applicare lo stesso metodo compositivo a un film quasi opposto, rischiando in modo ancora più forte di essere scambiato per ridondante ed ecumenico. Ma questo suo lavoro ancora una volta in fieri, che gioca sul flusso di coscienza e sulle associazioni di immagini e parole separate, è un nuovo colpo al cuore.

Perché il regista attraverso il suo stile e l’assoluta radicalità di sguardo e narrazione, sa riscrivere la percezione del tempo cinematografico, sa far vibrare sentimenti e immagini portentose (basterebbe l’inizio al Mont saint-Michel per restare a bocca aperta) sulla carta appena suggerita e sa far risuonare la ritrovata voglia di cinema – ha in preparazione almeno altri due film – in un’iperattività fatta di camera in movimento e montaggio ricchissimo che sono un atto d’amore alla vita, al mondo, ma soprattutto al cinema. Non è un’opera-mondo totale, ma è una poesia struggente sull’essere umano alle prese cone le sconfitte quotidiane. E scusate se è poco.

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