Gli Stati Uniti sono in guerra: non solo in Medio Oriente ma anche all’interno dei propri confini, con un mondo di corruzione che secondo Oliver Stone è consapevolmente alimentato tramite il traffico di stupefacenti. Il regista, sempre controcorrente, ci parla del suo film Le Belve, di prossima uscita sugli schermi italiani, tratto dal romanzo di Don Winslow e incentrato sulla figura di due giovani coltivatori di marijuana californiani (Taylor Kitsch e Aaron Johnson), costretti a scontrarsi con una signora messicana della droga (Salma Hayek) per salvare la ragazza amata da entrambi (Blake Lively). Ecco la nostra intervista a Oliver Stone, giunto ieri a Roma per presentare il film alla stampa italiana.
Oliver Stone, cosa l’ha attirata di questa storia?
Quando ho letto il libro di Don Winslow l’ho trovato molto originale, folle e imprevedibile. Non avevo mai visto un film del genere su quel tema, così ho capito che sarebbe stato un tipo completamente nuovo di crime thriller. Per me è come se fosse diviso in tre atti: il primo, è un omaggio alla scena californiana del sud, con le spiagge i corpi ecc; il secondo è dominato dalla prigionia e dalla tortura in un Messico molto dark; il terzo è una cosa ancora diversa e assomiglia molto a un western moderno. Non avrei mai scelto un film simile a ciò che ho fatto in precedenza, ma questo mi è apparso subito come qualcosa di assolutamente nuovo, anche se non sapevo bene come sarebbe andato a finire.
Lo stile del film è molto particolare, anche dal punto di vista cromatico.
Sì, diciamo che si avvicina alla street art e a Banksy, ma comunque cambia molto con l’evolversi del film. Ogni atto è diverso dall’altro e nemmeno io saprei bene come definire lo stile di questo film. Di sicuro è estetizzante, anche gli attori sono tutti bellissimi. Come ha detto John Travolta, non ho mai visto tante persone stupende fare cose così brutte in un film.
Il titolo originale del film è Savages. Crede ci sia un selvaggio in lei?
Credo che ci sia un selvaggio in ciascuno di noi, e che possa capitare di essere spinti in una zona morale dove dobbiamo farci i conti. Questo è rappresentato nel film soprattutto dal personaggio di Aaron Johnson, che coltiva marijuana non con l’ottica dello spacciatore ma perché ne apprezza le proprietà curative, non solo per il corpo, in caso di malattia, ma anche per lo spirito e la mente. Con i proventi del suo business aiuta i bambini del Terzo Mondo, un po’ come Bono, ed è sempre molto ragionevole, tanto che tenta di trattare con il cartello messicano. Nonostante le negoziazioni, tuttavia, dovrà affrontare il rapimento della persona che ama, arrivando a fare cose orribili pur di salvarla e intraprendendo un percorso molto duro di scoperta di sé. Tutti i personaggi compiono un proprio viaggio: Salma Hayek sembra la donna più spietata del mondo, ma è anche una madre tenera e premurosa.
Nel film sembra esserci la contrapposizione tra il cartello messicano della droga, i cattivi, e questi spacciatori californiani che in fondo hanno la parte dei buoni.
Non credo che la marijuana sia una droga. Per me le droghe sono qualcosa di sintetico, di farmaceutico, e gli Stati Uniti producono un sacco di farmaci, venduti dalle multinazionali per molti, molti soldi. Personalmente credo che la marijuana sia semplicemente una pianta, che cresce un po’ ovunque e in particolare nel Sud della California, dove ne fanno di ottima, un po’ come il vino. Per questo credo che dovrebbe essere a disposizione di tutti, ha proprietà terapeutiche e molte persone la trovano gradevole. Aiuta ad alleviare il dolore, è ottima per i malati di cancro ma anche per la mente, per ampliare i confini della nostra dannata mente. Non ho mai sentito parlare di qualcuno morto per overdose di marijuana, mentre ci sono molti decessi causati da un’assunzione eccessiva di alcolici o di cibo, e ovviamente di cocaina ed eroina.
Cosa ci dice del triangolo amoroso dei tre protagonisti, interpretati da Taylor Kitsch, Aaron Johnson e Blake Lively, un po’ alla Jules e Jim?
Beh, rispetto a Jules e Jim, lei viene rapita, il film quindi non è solo sulla loro storia d’amore, che comunque è interessante. Quando abbiamo presentato il film a Parigi, una signora sui 40 mi ha detto “cosa c’è di così speciale? Io ho vissuto con due uomini per 20 anni”. Questo è molto francese, ma serve a spiegare come ci possano essere varie letture di tale relazione. Qualcuno, anche il personaggio di Salma Hayek, suggerisce che i due ragazzi si amino più di quanto amano lei, altrimenti non arriverebbero a condividerla. Questa mi sembra un’interpretazione molto spagnola, cattolica, e non penso che quello tra i protagonisti si possa definire un rapporto omosessuale. Nel libro i tre hanno rapporti insieme, ma con la mentalità puritana americana, non avrei mai potuto mostrarlo. Forse se fosse stato un film francese…
Com’è stato il rapporto con Don Winslow? E quanto avete cambiato nel film rispetto al libro?
Il rapporto con Winslow è stato molto collaborativo. Ci sono stati, come al solito, accordi e disaccordi, ma è orgoglioso dell’uscita del film e lo sostiene. Per quanto riguarda l’adattamento, ci sono varie scene del film che non sono proprio nel libro, e anche il finale è diverso. Vedere un film non è come leggere un romanzo: il tempo è limitato, per cui lo spettatore deve avere tutto subito sullo schermo e le modifiche sono inevitabili. Nel libro ad esempio non c’è un solo narratore, ma almeno sei. Nella versione cinematografica abbiamo deciso per necessità di tenerne uno solo, la ragazza, cioè Blake Lively. Mi piaceva il fatto che cominciasse dicendo “Il fatto che vi stia raccontando questa storia, non significa che alla fine io sia viva”. Dà subito l’idea di una voce narrante non affidabile, il che diventerà molto importante nel finale.
A proposito del finale: il film ne suggerisce due, uno più prevedibile, l’altro più simile a un lieto fine.
Non ho visto molti doppi finali ultimamente e credo sia divertente giocare con le aspettative dello spettatore. Il primo viene dal libro ma non mi piace, perché è troppo romantico e anche troppo idealista in un certo senso. Implica il sacrificio di alcuni dei personaggi, e nel profondo del mio cuore non credo che delle persone reali farebbero mai qualcosa del genere. Il secondo non lo chiamerei un lieto fine: si tratta semplicemente di un epilogo più realistico, in cui i criminali e i corrotti la fanno franca. Questo purtroppo è molto verosimile. Il fatto che gli eventi volgano anche a favore dei protagonisti è solo l’effetto collaterale di un mondo che persevera nella propria corruzione. Come dice il personaggio di Blake Lively “La vita ha una verità tutta sua”.
Un altro dei temi forti del film è la guerra, come se i soldati americani che sono stati in Iraq e in Afghanistan riportassero il conflitto con loro anche in patria.
Il tema è centrale nel libro di Winslow e personalmente pensavo che fosse un ottimo momento per parlarne, visto che ultimamente l’America è stata sempre sul piede di guerra. Ma non c’è solo il conflitto in Medio Oriente: quella alla droga è anch’essa una guerra vera e propria, che sta corrompendo la nostra società e di sicuro quella messicana. La guerra alla droga sta diventando sempre più simile alla guerra al terrore, ha permesso agli Stati Uniti di infiltrare agenti in altri Paesi e crea nuove categorie di criminali che riempiono le carceri. È una lotta che alimenta la malavita, così come all’epoca il proibizionismo alimentò la mafia. D’altra parte ci sono enormi interessi che spingono affinché la marijuana non venga legalizzata: non bisognerebbe chiamarla guerra alla droga, ma “guerra per i soldi”.
È sempre stato un regista dalle idee scomode. Intende continuare su questa linea?
Il mio prossimo progetto, quello a cui forse tengo di più nella mia carriera, è un documentario a puntate intitolato “Secret History of America”. Parla degli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale a oggi, e intende dimostrare come si siano allontanati dalla propria natura originale per diventare una specie di Stato di Polizia, ossessionato dalla sicurezza nazionale, ma non nel senso di portare maggior sicurezza personale a ciascun cittadino, bensì di imprimere su tutti un senso di paura e di terrore. Il documentario arriverà presto sulla tv americana e nel Regno Unito. Non è fiction, ma solo dati presi da fonti appurate. So che non verrà capito, ma è davvero valsa la pena di realizzarlo.
Ecco la nostra fotogallery completa:
QUI potete vedere una clip in italiano tratta dal film.
Le Belve (Savages) arriverà in Italia giovedì 25 ottobre 2012. Per maggiori informazioni potete consultare le nostre News dal Blog o la pagina Facebook del film.