Marco Muller, ex-direttore della Mostra del Cinema di Venezia, spesso è stato irriso per il suo smisurato amore per il cinema orientale, soprattutto cinese, che lo portava a infarcire i programmi di film provenienti da Pechino e dintorni. Ma anche il suo successore Alberto Barbera ha passioni in quelle terre, e quindi ecco approdare fuori concorso al Lido per la sua 69^ edizione Tai Chi 0, primo capitolo di una trilogia fantasy action diretta dal regista hongkonghese Stephen Fung.
Yang Luchan, protagonista del film, non è un ragazzo particolarmente intelligente, ma una deformazione fisica lo rende praticamente invincibile in combattimento, debilitandolo però profondamente. Per controllare questo potere, va al villaggio Chen per apprendere le arti del kung fu: non solo però nessuno vuole insegnarlo a uno straniero, ma si trova a fare i conti con una macchina possente che minaccia di distruggere il villaggio. Scritto in maniera confusissima sul filo del delirio da Chen Kuo-fu, Tai Chi O è un tipico film di arti marziali, o meglio sulle arti marziali, cinesi che mescola con disinvoltura estrema e sfacciata la storia e la stilizzazione, il post-modernismo e la politica del regima, lo steampunk e il videogioco.
Su un tema chiave di molta cultura cinese, che per tradizioni politiche non può essere che popolare, ossia l’acquisizione dell'”arte”, Tai Chi O imbastisce un calderone diseguale e altalenante in cui il nazionalismo sciovinista della vecchia Cina e il necessario rapporto contemporaneo con gli stranieri, la diffidenza verso il nuovo e le svolte tecnologiche del nuovo capitalismo di stato. L’alternanza continua di passato e presente, come scuola post-moderna c’insegna, crea una sintesi bizzarra e fuori dalle righe, ma non priva d’interesse soprattutto a livello grafico e visivo, tra inserti animati figli di Tartakovski (Samurai Jack) e gli attori presentati dentro la narrazione con mini-curricula.
Lo spessore della sceneggiatura e la sua scrittura sono quasi nulli e la regia fa molta fatica a tenere in piedi la baracca, ma non mancano gli spunti divertenti e interessanti nella stilizzazione e nello sguardo. Il vero grande peccato è che l’azione diretta e coreografata dal grande Sammo Hung (praticamente un co-regista) sia depotenziata da un uso sconsiderato di ralenti, montaggio ed effetti digitali. Ma sono peccati sui quali si può soprassedere anche in virtù del trailer della seconda parte, che chiude il film, e nel quale spunta improvviso Peter Stormare.
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