Finita da pochi giorni su FoxLife dopo 14 episodi, Pan Am è stata una delle delusioni della stagione tv 2011/2012. Partita con l’ambizione di replicare il successo di Mad Men e la sua formula per un pubblico femminile – e generalista visto che trasmette ABC -, la serie creata da Jack Orman non è riuscita a coinvolgere il pubblico e dei 18 episodi ordinati ne sono stati prodotti solo 14. Cosa non ha funzionato in questo progetto?
Nell’ultimo episodio, dal titolo 1964, si cercano di chiudere la varie storyline e quindi le diverse anime di una serie che si è sfilacciata per inseguire troppi pubblici: Maggie cerca ancora una volta, contrabbandando gioielli, di affermare la propria indipendente femminilità, Laura deve reprimere i propri sentimenti per Ted, in procinto di sposarsi con una donna lesbica, Colette accetta la corte di un principe orientale, Kate è di nuovo coinvolta in un intrigo di spie.
Scritto da Nick Thiel e diretto da Andrew Bernstein, 1964 sconta tutto il peso di dover chiudere una storia che rating dopo rating si sapeva non avere chance, per non lasciare il pubblico in modo poco degno. Così le quattro storie vengono chiuse in modo affrettato, ricordando soprattutto allo spettatore i vari registri della serie: c’è il lato sentimentale, con il triangolo che racconta anche le difficoltà sociali nell’accettare l’omosessualità, il lato politico con la scoperta delle radici ebraiche di Colette che gli impediscono di sposare il principe, il lato femminista del personaggio di Maggie (poca cosa a dire il vero) e infine quello spionistico che doveva essere il filo conduttore della serie e che invece viene ridotto quasi a un pretesto, e come tale risolto.
Sullo sfondo della fine del ’63 e l’arrivo del ’64, mettendosi alle spalle gioie e dolori (tra cui la morte di Kennedy), Pan Am conclude un po’ mestamente la sua avventura: ma perché? Limitandosi all’ultimo episodio, la serie non sa costruire il crescendo, non sa rendere avvincente una storia che prova con molta a fatica a raccontare gli anni ’60 e a legarli con l’attualità: il finale, dove l’addio all’anno finito è l’addio alla serie, è goffo e denota la mancanza di affiatamento del cast. Ma più in generale, Pan Am ha perso di strada il proprio obiettivo, e pur di racimolare pubblico ha disperatamente abbandonando il proprio cuore narrativo, limitandosi a spolverare la soap-opera in stile Peyton Place. Finendo per perdere ancora più pubblico.
Resta però un dubbio sulla tendenza che pareva aver preso piede dopo il successo della seria AMC di Weiner: ossia i period drama ambientati negli anni ’60. Ce ne sono non pochi in preparazione, dal noir di Darabont al thriller con Harrelson e McConaughey, oltre a The Playboy Club chiuso dopo 3 episodi. Non sono in discussione, ma sarebbe il caso se ne rivedessero i progetti: non basta infatti spendere soldi e impegno nella ricostruzione minuziosa di costumi e decor, nell’uso indiscriminato di eventi storici. Bisogna capire che ciò che rende Mad Men grande non è solamente l’impianto visivo e cool, ma soprattutto la finezza che lega personaggi di 50 anni allo spettatore moderno, la sensazione di mettere in scena non il mondo che fu, ma quello che cambia. E non è affatto facile. Pan Am lo conferma.
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