La scia di Romanzo criminale è stata molto feconda, innanzitutto per il tentativo di ravvivare il filone del gangster movie che in Italia latitava da un trentina d’anni, e poi perché ha dato vita a epigoni più o meno interessanti ma comunque degni, come l’omonima serie o Vallanzasca. Ultimo figlio di questa onda è Faccia d’angelo, la miniserie in due parti trasmessa il 12 e il 19 marzo (ma si può trovare in replica) da Sky Cinema Uno per la regia di Andrea Porporati e con l’interpretazione di Elio Germano.
L’attore interpreta Il Toso, soprannome dietro cui si cela la figura realmente esistita di Felice Maniero detto appunto Faccia d’angelo, criminale veneto molto ambizioso che grazie a colpi spettacolari, dall’oro alle rapine passando per il gioco, rivoluzionò la criminalità locale creando la cosiddetta mala del Brenta e mettendo il Nord Italia a ferro e fuoco tra gli anni ’70 e i primi anni ’90, come fosse un gangster hollywoodiano. Scritta dal regista con Elena Bucaccio e Alessandro Sermoneta, sulla base di un libro auto-biografico scritto da Maniero (che poi si è dissociato dal prodotto) e Andrea Pasqualetto, la miniserie usa lo schema tipica della realtà romanzata, del mito che trasfigura la cronaca, cercando però più che lo sguardo storico e sociale, quello umano e psicologico.
Fin dalla prima sequenza, quella in cui il piccolo Toso deve affrontare un esame d’ammissione, il prodotto cerca di metterne in evidenza l’intelligenza, la scaltrezza, l’abilità strategica, prima che criminale, fuori dal comune, e più che sottolineare le condizioni economiche in cui crebbe la malavita veneta – che comunque restano chiare sullo sfondo della prima parte col rapporto col biscazziere – racconta l’evoluzione intima e sentimentale del personaggio, il rapporto con la madre, con le sue donne col figlio. Parallelamente, appare la squadra di polizia, nella quale emerge l’ispettore Ricci, giovane ostinato nel dare la caccia lungo un decennio alla banda del Toso.
E’ in questo parallelo però che si notano le prime crepe della sceneggiatura, nella mancanza di compattezza, di coesione narrativa: le due parti sono infatti nettamente divise per struttura, con la prima costruita attraverso i flashback con cui la polizia cerca di ricostruire gli atti della banda e la seconda più tradizionale in cui si racconta il declino del Toso, dando la sensazione di una lavoro di scrittura travagliato e poco controllato. Ed è proprio nella scrittura che si annidano i principali difetti di Faccia d’angelo: il tentativo di costruire il personaggio e la sua storia in maniera differente, per blocchi, associazioni d’idee, digressioni, è interessante, ma non è supportato da una narrazione confusa e poco appassionante e da personaggi descritti giocando poco abilmente con gli stereotipi (la barca con il nome della mamma che porta alla cattura).
Porporati nella prima, spettacolare rapina prima dei titoli di testa, cerca di dimostrare le sue capacità e la tenuta visiva della miniserie, ma poi non regge sulla distanza e sconta un andamento ripetitivo, poco appassionante. E stranamente, gli attori paiono fuori parte, almeno i protagonisti: il continuo e poco chiaro uso di un pesante dialetto veneto non aiuta fruizione e comprensione, ma si ha la sensazione che Elio Germano abbia studiato più il linguaggio che il corpo e il cuore del suo Toso, che fatica a conquistare – in un senso o nell’altro – lo spettatore che preferisce allora la spontaneità dei comprimari, o la dolcezza della mamma Katia Ricciarelli. E soprattutto, si pensa allo spreco di un’occasione che avrebbe potuto aiutare a conoscere e riflettere su una pagina importante della nostra cronaca e che invece sembra solo un tentativo poco azzeccato di fare cinema di genere. Onesto, ma poco incisivo.
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