La recensione contiene degli SPOILER sulla trama di The Walking Dead. Siete liberi di continuare o meno la lettura dell’articolo a vostro rischio e pericolo.
Mi sembra abbastanza evidente che la produzione e gli autori abbiano imparato dagli errori del finale della scorsa stagione, e che questo secondo ciclo di The Walking Dead sia un prodotto forte, a tratti possente, estremamente solido dal punto di vista della produzione e molto interessante da quello della scrittura: personaggi ricchi di sfumature e tensione strisciante che esplode e che non si limita alla semplice esibizione di zombie, sangue e frattaglie come un qualunque horror estremo giovanilista, stile Dead Set per intenderci. E questo episodio dimostra senza paura che si può fare una serie d’orrore, o meglio che si può semplicemente parlare di orrore senza dover imitare lo splatter e il gore dei B-movie, ma attraverso la psicologia dei caratteri e il talento in fase di scrittura, parlando anche di temi di un certo spessore come il rimorso e il rimpianto.
Mentre proseguono le ricerche della piccola Sophie, senza alcuna fortuna, Carl dopo numerose cure si sveglia, però ancora convalescente. Glenn e Maggie organizzano una spedizione in farmacia, dove il ragazzo deve prendere in segreto un test di gravidanza per Lori, ma prima devono affrontare un intoppo: uno zombie nel pozzo che può infettare l’acqua che bevono tutti. Scritto da Evan Reilly e diretto da Billy Gierhart, un episodio non perfetto e sicuramente non memorabile, ma che rappresenta la sicurezza e la ritrovata complessità della serie superate le diffidenze delle prime puntate e dopo aver catturato nuovamente milioni di spettatori, tra cui anche i molti italiani che caso più unico che raro possono seguirla in contemporanea: e come si capisce dal plot, che in realtà non ha un intreccio ma spunti, situazioni che servono a raccontare i personaggi, al centro di tutto ci sono i bambini.
Facile fare il parallelo tra i morti viventi, simbolo della fine della civiltà, e i bimbi, emblema della rinascita e della speranza, ma è evidente come la serie in questo secondo ciclo ci giochi apertamente come elemento di tensione, e da subito, dalla prima puntata. Il cerchio della vita che cantava Elton John (ma anche Ivana Spagna) nel Re Leone in questo episodio riparte: se Sophie è ancora dispersa e a nulla valgono i tentativi della madre di aspettarla vicino al punto in cui se ne sono perse le tracce, Carl si sveglia dopo due puntate di coma riaccendendo la speranza sul volto di Rick e facendo da specchio a Lori, che consegna a Glenn una richiesta da trattare “con la massima discrezione” una volta giunto in farmacia: un test di gravidanza, al centro di una scena un po’ tirata via e semplicistica nella realizzazione (lo sappiamo che tra la pipì e il risultato ci vogliono 3 minuti, non 3 secondi). Da questa descrizione pare non ci siano mostri, e forse è un bene, almeno in questo caso: perchè la forza dell’episodio sta nel modo in cui vengono descritte le azioni e le reazioni dei personaggi, dal rimorso pulsante di Shane – personaggio ormai chiave -, che fatica a trattenersi al funerale al rimpianto a Carol, straziante quando la vediamo in piedi accanto a una macchina che incita la piccola Sophie a restare lì, o nella scena che dà il titolo all’episodio, con la rosa Cherokee che racconta il dolore delle madri da cui rinasce la vita.
I mostri però ci sono, almeno uno: quello nel pozzo dell’acqua, protagonista di una scena tanto tesa quanto gratuita, e soprattutto scritta non troppo bene: perché , se serve un’esca viva per catturare il mostro, scegliere Glenn e non un animale, essendo in fattoria? E perché proprio Glenn? Spero non sia per il tipico razzismo da film horror. Il finale della scena però è splatter puro degno del primo Peter Jackson, e col suo tono ironico riesce a dare una sfaccettatura diversa all’obbligo dei mostri in un prodotto horror. Un buon episodio, a tratti ottimo, che sa mostrare il lato umano ma non fiacco della serie, dove sono i dialoghi e lo scavo a farne la bellezza più che gli effetti speciali o gli elementi superficiali: il fatto poi che tutti gli attori siano in forma è un valore aggiunto, e la piega che sta prendendo l’interpretazione di Jon Bernthal non può far altro che piacere. Magari ci manca ancora un po’ per essere il capolavoro che è il fumetto, ma siamo vicini, forse. E voi che ne pensate di questo episodio e della seconda stagione? Ditecelo e continuate a seguirci su Episode39 e sul blog di Screenweek.