Se c’è un indicatore che può dire dello stato di salute di una cinematografia, è la presenza di film medi (ossia più curati e raffinati di quelli popolari e di genere, ma più aperti al grande pubblico) di buona, se non ottima fattura. La mancanza dei quali, negli ultimi anni sta segnando il declino dell’industria americana del film. Perciò rappresenta una felice eccezione Moneyball-L’arte di vincere, il secondo lungometraggio di finzione di Bennett Miller dopo l’ottimo Capote.
Al centro del film c’è la storia vera di Billy, ex giocatore di baseball senza successo che ora è general manager della povera squadra di Oakland: vista la penuria economica e di risultati, decide di dare retta alle teorie di Peter, basate su rigidi calcoli statistici. Ma attorno a lui cresce la diffidenza e i risultati paiono dar ragione ai detrattori. Tra commedia e dramma sportivo, il film scritto da Aaron Sorkin, Steven Zaillian e Stan Chervin – da un libro di Michael Lewis – è uno di quei film umani e umanisti, sulla scia degli anni ’70, che paiono l’unico modo per ravvivare il cinema non-kolossal americano.
Centrato infatti sulla dicotomia apparentemente irrisolvibile tra il fattore matematico su cui le valutazioni del baseball si fondano e quello umano dello sport, il film mette in scena un personaggio di fallito, di successo certo, ma perdente nel fondo, che non è mai riuscito a raggiungere il suo obiettivo sebbene i suoi percorsi fossero azzeccati: è nel suo nervosismo (non guarda mai le partite della sua squadra), nella sua ostinazione a non voler essere e non voler fare ciò che dovrebbe (come nel finale ironico) che sta il cuore emotivo di un film solido e avvincente, che ha di troppo solo le parti familiari.
Sorkin (The West Wing, The Social Network) è uno che renderebbe appassionante qualunque cosa e qui, col supporto di un altro pezzo grosso della sceneggiatura come Zaillian (Schindler’s List), ci riesce con le medie di battuta, le percentuali di corsa, gli scambi tra giocatori, riuscendo a mostrare – in tempi di scioperi e lockout dello sport – il senso personale di un grande business; Miller, a essere sinceri, convince meno che nel suo film precedente, ma ha un buon tocco e una bella sensibilità e tira fuori da Brad Pitt un’altra prova grintosa e credibile, dando a Jonah Hill (Suxbad) il ruolo che può emanciparlo dalla commedia demenziale. Bella apertura per il Torino Film Fest: continuate a seguire le news e le recensioni dal festival su Screenweek.