Aki Kaurismaki è uno di quei pochi, forse pochissimi registi contemporanei, ai quali basta un’inquadratura per mostrare la firma, per far capire allo spettatore che è un suo film: a Miracolo a Le Havre basta la prima, con il protagonista e un suo collega lustrascarpe in piedi, a figura intera, ad aspettare e guardare un punto nel vuoto. Questa sorta di laconicità dell’immagine che si sposa a quella della parola è una caratteristica fondamentale del cinema del finlandese, premiato col Gran premio Torino al 29° Torino Film Festival nell’evento di apertura, e che rende grande anche quest’ultimo suo film.
Protagonista è Marcel, sciuscià che nonostante le difficoltà riesce a campare onestamente: un giorno però incontra Idrissa, ragazzino fuggito durante una retata contro i clandestini. Con la moglie ammalata, Marcel dovrà cercare di sistemare i problemi con la polizia e mandare il giovane a Londra, dalla sua comunità. Commedia dai toni lievemente fiabeschi, scritta dallo stesso Kaurismaki per raccontare il suo punto di vista sulla questione morale – prima che legale e politica – dell’immigrazione, ambientando il film in un luogo cardine del fenomeno, Le Havre, nella Normandia che fece già da sfondo a Welcome di Lioret.
Attraverso la storia essiccata di un uomo, una donna e un bambino e dei suoi vicini di casa, il film mette in scena le ripercussioni sociali e comunitarie dell’immigrazione, soprattutto le conseguenze delle leggi che considerano un clandestino come un criminale, come un atto di ribellione degli ultimi contro il potere strisciante e oppressivo dello stato: Kaurismaki astrae come al solito il racconto col suo stile, riduce al minimo gli elementi per concretizzare meglio le emozioni e se il film “ha poco di realistico” (come dichiara lo stesso regista) nondimeno riesce a parlare di noi, del nostro mondo.
Il finale può far pensare a un ripiegamento su facili soluzioni, ma il ciliegio dell’ultima inquadratura sottolinea ironicamente la natura favolistica, e quindi impossibile, del racconto che Kaurismaki taglia di continuo con luci noir (fotografia di Timo Salminen), riflessioni sull’identità ideologica (il protagonista si chiama Marx), personaggi curiosi (il denunciatore di Jean-Pierre Leaud) e l’amore per le piccole persone che sanno fare piccoli miracoli. Scaldato dall’alcool come il suo autore, Le Havre è un film di gesti, volti, sorrisi e preoccupazioni, ma anche di idee e valori, che fa stare bene e recupera, come nei capolavori di Chaplin, il senso del mondo attraverso quello del calore umano. Non si può non voler bene a Kaurismaki, e non amare il suo cinema. E voi che ne pensate? Andrete a vedere il suo film? Intanto continuate a seguire il festival di Torino su Screenweek.