E’ uno dei più grandi documentaristi – oltre che registi – di sempre e un suo film è sempre un evento anche se negli ultimi tempi è più prolifico del solito: Werner Herzog, regista tedesco di L’ignoto spazio profondo e Nosferatu, arriva al 29° Torino Film Fest con Into the Abyss, documentario sulla pena di morte presentato nella sezione Festa mobile-Paesaggio con figure, e conferma una sensibilità dolente nonostante l’apparente cambio di stile.
Il film parte da Michael Perry e Jeremy Burkett, condannati rispettivamente alla pena capitale e all’ergastolo per un triplice omicidio a scopo di rapina, e ne racconta la vicenda giudiziaria per poi allargarsi alle loro vite e a quelle dei parenti delle vittime, fino a descrivere il contesto socio-culturale che li circonda. Scritto dallo stesso Herzog, il film racconta in maniera apparentemente classica un singolo caso, più che il sistema in sé, allargandosi poi a riflettere su ciò che significano vita, morte, tempo e verità per un condannato a morte.
Centrato quasi esclusivamente su interviste, coi video della polizia a fare da corredo visivo piuttosto scioccante (l’evidenza di una realtà senza apparenti punti di vista), il film racconta la morte di Sandra e Adam Stotler e Jeremy Butler attraverso le testimonianze di parenti e amici ma soprattutto attraverso quella dei loro carnefici, evitando le trappole della video-inchiesta e diventando così un parabola umana sul dolore e la morte attraverso chi la conosce da vicino, perché l’ha inflitta a tre persone o perché deve affrontarla una settimana dopo: attraverso questo punto di vista, che si allarga sempre di più fino a diventare un glaciale ritratto del Texas in cui i fatti ebbero luogo, Herzog non fa un pamphlet contro la pena di morte (pur schierandosi all’inizio) ma riflette sulla consapevolezza della vita e su quell’abisso che è il dolore.
Sceglie un metodo diverso, meno inventivo del solito, ma il suo progetto è preciso e implacabile nell’estendersi fino a diventare metafisico (le riflessioni dell’ex-boia) e i tocchi grotteschi – l’intervista alla moglie di Burkett – si sposano con accenni spirituali e toccanti, come quando il padre carcerato di uno dei due racconta del Ringraziamento passato ammanettati in carcere. Herzog riprende le persone come fossero paesaggi, cercandone i lati nascosti e impensati, andando a fondo della loro umanità, ma anche dello spettatore: e come ogni buon documentario diventa racconto, lasciando lo spettatore a chiedersi cosa sia inventato in una realtà che appare incredibile. E voi siete amanti dei documentari o di Herzog? Fatecelo sapere e continuate a seguirci con le news da Torino su Screenweek.