American Horror Story, la recensione del pilot

American Horror Story, la recensione del pilot

Di emanuele.r


Lo sappiamo tutti: se c’è una casa abbandonata da qualche parte e se qualcuno ha intenzione di trasferirsi e andarci a vivere, quella casa sarà posseduta da fantasmi, demoni e quant’altro. E’ una lezione semplice che nessuno si ostina a capire: e allora ne approfittano Ryan Murphy e Brad Falchuk che, dopo il grandissimo successo di Glee, vanno su una rete via cavo come FX per creare la loro personalissima e disturbante visione di horror: American Horror Story, il ghost show che ha esordito ieri in Italia su Fox e che in America sta riscuotendo tanto successo da essersi assicurato la seconda stagione dopo pochi episodi.

La storia è molto semplice: la famiglia Harmon (Ben, la moglie, Vivien e la figlia Violet) si trasferisce in una casa in periferia dopo aver perso un figlio e aver affrontato il tradimento di lui. Ma la nuova abitazione, teatro di un recente duplice omicidio, è ovviamente infestata di visioni, presenze, tetri avvertimenti. Ne usciranno vivi o sani di mente? Scritto dai due creatori e diretto dallo stesso Murphy, il pilot guarda all’horror contemporaneo fatto di fantasmi e apparizioni, come tutto il J-horror o The Others e simili, per farvi confluire tutte le perversioni, deviazioni, fantasie e furbizie del suo autore, che già con Nip/Tuck aveva mostrato allo spettatore un bel catalogo di morbosità.

Ma come dice il titolo, la storia d’orrore americana o dell’orrore americano, è qualcosa di più di un semplice dramma con fantasmi, ma è un viaggio nell’inconscio: infatti fin dalle prime scene, con Vivien dal ginecologo che le dice “Il tuo corpo è come una casa” e Ben che fa lo psichiatra, la serie si pone come racconto delle nostre paure e dei nostri vizi e di come questi, il più delle volte, diventano i fantasmi e i demoni che concretamente ci distruggono. Ed è molto interessante che, come raramente si fa in storie del genere, i fantasmi e le visioni non siano semplici mezzi per fare paura o indizi di un puzzle da ricostruire, ma veri e propri personaggi: la bambina down e la sua grottesca madre, la vecchia cameriera che Ben vede come sexy tentazione, l’uomo bruciato che avverte la famiglia, fino all’incredibile “uomo nero”, un fantasma vestito di latex fino agli occhi che promette di destabilizzare la famiglia (specie nel finale).

Viene il dubbio che sia molto difficile fare una serie da uno spunto che ha più la parvenza di un film, ma la sceneggiatura è abile a svelare i personaggi poco a poco (e descrivendo la figlia Violet, Murphy conferma che a scuola deve avere avuto un po’ di problemi) e soprattutto il brio della regia, la messinscena impeccabile, il gioco dei toni, l’uso delle musiche e del montaggio ne fanno un prodotto di ottimo livello, eccessivo e quasi folle che promette benissimo per il suo prosieguo. Bene anche il cast, con un Dylan McDermott nudo per metà pilot e una Connie Britton che svela la sua natura sensuale, spesso trattenuta negli altri suoi ruoli. E voi che ne pensate? Vi è piaciuto? Diteci la vostra e intanto continuate a seguirci sul nostro blog di Screenweek.

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