Basterebbero i quattro nomi coinvolti per definire il livello di attesa creato da Person of Interest: il protagonista Jim Caviezel, Gesù per Mel Gibson e numero 6 nel remake del Prigioniero, Michael Emerson, l’indimenticabile Linus di Lost, il creatore e autore Jonathan Nolan, autore col fratello Christopher di film come Il cavaliere oscuro e Inception, e J.J.Abrams che qui produce e non devo certo presentarvelo. A fronte di tale insieme, bisogna dire che finora, Person of Interest è invece una serie che è rimasta sospesa a mezz’aria, senza convincere del tutto lo spettatore e sprecando in parte il proprio potenziale.
Il plot è di quelli fatti per incuriosire: un barbone dal passato oscuro, ma capace di combattere, viene assoldato da un miliardario altrettanto misterioso. La sua missione è prevenire crimini grazie a un’abnorme connessione di milioni di telecamere sparse per il paese che memorizzano i dati di chi riprendono; ma siccome non tutto funziona per il verso giusto – e spiegarlo impiega nel pilot una decina di minuti – il ricco giustiziere ha bisogno di un braccio ben armato. Non è chiarissimo il retroscena del primo episodio, scritto dallo stesso Nolan e diretto da David Semel, quello che è chiaro è che lo show è una sorta di detective story dalle venature fantascientifiche – che ricordano Nemico pubblico di Scott e Minority Report di Spielberg – che non riesce a coinvolgere il pubblico in quello che dovrebbe essere il proprio nocciolo.
Aperto da una scena che pare presa da un film di Jason Bourne, l’episodio infatti pare perdersi tra vari influssi c’è la paranoia politica divisa tra realtà, con l’uso dell’11 settembre come chiave di volta dei personaggi, e invenzione (il “Grande fratello” creato da Finch è un parecchio macchinoso), c’è il dramma umano con due personaggi tormentati dal rimorso, e quello di Reese è avvolto da un mistero che i brevissimi flashback riveleranno e che c’entrano con la sua donna, per finire con il drama procedurale, il caso della settimana che nel pilota è quello di un avvocato invischiato nella trama losca di un suo cliente che non si capisce se sarà vittima o carnefice. Purtroppo, questi tre filoni non arrivano mai a fondersi insieme e la serie si trova con poco intreccio, non troppa suspense, qualche tempo morto di troppo.
In compenso, c’è un bel finale grazie alla regia di Semel, bravo a supplire alle incertezze dello script: più che altro è curioso notare come, dopo un periodo a cavallo tra i ’90 e il 2000 in cui le serie tv hanno rivoluzionato la narrazione televisiva, si sia ripiegato a un atteggiamento – e a storie – che ricordano gli anni ’80, come quella del ricco e del giovane che devono raddrizzare torti (Hardcastle & McCormick o Un giustiziere a New York), con storie auto-conclusive e pochi spunti di riflessione. Ci si può giocare con ironia, come fa Burn Notice, oppure accontentarsi, sperando che i successivi episodi migliorino.