Non è per fare gli intellettuali snob, e stroncare non è certamente lo sport che preferisco, soprattutto perché mi piace vedere bei film. Ma, ahimè, dopo la doppia delusione de La talpa e Himizu, mi ritrovo a parlare maluccio anche di Quando la notte di Cristina Comencini.
Faccio un preambolo: si dice in giro, qui, che forse noi critici italiani siamo maldisposti verso il nostro cinema ed entriamo in sala prevenuti. Forse per alcuni è così, ma non per me: come sempre, sono entrato in sala con le migliori intenzioni, anche se devo ammettere che a pelle fatico a innamorarmi dei film italiani, che giudico sempre limitati sotto alcuni punti di vista. Anzi quasi sempre: ci sono eccezioni come Terraferma di Crialese (ne parlo qui) che dimostrano quanto anche noi possiamo fare ottime cose. E non scherzo quando dico che entro con le migliori intenzioni: la gente spesso tende a diffidare dei “critici”, prova ne è la valanga di insulti che mi sono beccato un paio di anni fa, quando ho recensito Survival of the Dead di Romero – dicendo anche allora che ero entrato con le migliori intenzioni.
Parte bene, Quando la notte. Paesaggi maestosi ben serviti da una macchina da presa che si sa muovere, un prologo asciutto che ci porta rapidamente al punto di partenza: c’è una madre, Marina (Claudia Pandolfi) con il figlio di due anni che si trasferisce in una casa di montagna, dove programma di stare tre settimane. Il bambino piange spesso, dorme poco e allora, come a tante mamme, anche a questa il pediatra avrà detto di stare sui monti per un periodo. Il suo padrone di casa è Manfred (Filippo Timi), introverso alpinista separato dalla moglie e con trauma infantile a carico: da bambino è infatti stato abbandonato dalla madre, e dopo alcuni episodi si convince che Marina non è una brava mamma. Ma chi disprezza compra…
Dopo un buon primo atto, il film comincia ad accasciarsi per colpa dei soliti snodi improbabili della sceneggiatura e di personaggi poco interessanti o tagliati con l’accetta. Ad esempio, Marina va con Manfred alla baita della famiglia di lui, dove incontra i fratelli dell’uomo. A causa di una serie di screzi che non vi starò a raccontare, Marina decide di fermarsi alla baita per alcuni giorni, senza cambi per lei o il bambino. Da lì, il film prende una piega bizzarra, mentre la Comencini perde la bussola: fra dialoghi tra madri tendenti all’involontariamente comico (c’è un episodio raccontato dalla moglie di uno dei fratelli che grida vendetta a Dio per il suo ostentato didascalismo edipico, scusate i paroloni) e drammi familiari superflui, la trama si snoda come un orbettino a cui è stata appena schiacciata la testa sul limitare di un bosco. Le belle intuizioni tematiche – la maternità come sofferenza anziché felicità, la solitudine e il silenzio della montagna – finiscono giù per lo scarico con sorprendente rapidità.
Il finale pseudo-romantico snocciola dialoghi letterari e doppi sensi (anche questi, forse, involontari) e condisce il tutto con una scena di sesso superflua. Il punto è che, in sala, si è sentito chiaramente il momento in cui il film, da opera decente e quasi interessante, si è trasformato in un qualcosa di indefinibile e insostenibile. Si è sentito perché il pubblico ha iniziato a ridere. A ridere tanto. E non penso fossimo tutti italiani.
Continuate a seguirci: ormai siamo in dirittura d’arrivo, ma nei prossimi tre giorni al Festival di Venezia vedremo di sicuro altre pellicole interessanti!