Il cinema danese non è solo Lars Von Trier, i suoi sempre interessanti film (compreso Melancholia) e le sue imbarazzanti conferenze stampa, né è il cinema forse sopravvalutato, ma comunque da Oscar di Susanne Bier, oltre ai figli del dogma c’è di più, e quel di più risponde al nome di Nicolas Winding Refn.
Il quarantunenne cineasta di Copenhagen arriva con Drive alla prima tappa di una carriera che difficilmente ormai potrà scendere di livello, vista la maturità dimostrata. Dopo tante produzioni di medio/buon livello (la trilogia di Pusher, Valhalla Rising), ma mai nulla di davvero straordinario, vuoi a causa di budget limitati, vuoi per una certa incapacità di trovare un equilibrio tra lo straordinario senso estetico del suo occhio e la scrittura di sceneggiature certe volte piuttosto superficiali, Refn ha finalmente centrato il bersaglio grosso. Il suo è un lavoro di azione spesso trattenuta su cui immette straordinarie fiammate di fisicità e machismo della migliore specie, nonché, dopo un’ora di film, anche parecchio pulp.
Personaggi silenziosi e cattivi quanto basta, atmosfere cupe, musiche e atmosfere anni ’80 (un po’ come quelle di I padroni della notte di James Grey), suoni di motori su strade buie o deserte, innamoramenti fatti di sguardi platonici e parole non dette, cause ed effetti che si aprono e si chiudono arrivando subito al punto, senza ricamare troppo sui risvolti drammatici della vicenda, non c’è nulla che non contribuisca a far “gasare” lo spettatore che sa apprezzare un prodotto del genere. Non è un caso se il festival di Cannes lo ha accettato tra i film in concorso per la Palma d’oro.
La prima parte del film è un vero e proprio manuale di regia, ogni inquadratura o movimento di macchina è una pennellata degna del migliore Michael Mann, corpi che si stagliano sullo schermo componendo lasciando sempre lo giusto spazio tra loro e lo spazio intorno, dando così un continuo senso di attesa e divenire. Dalla prima, straordinaria sequenza dell’inseguimento, a quella ancora più eccezionale dell’assalto al motel, anche nei momenti relativamente “morti”, si percepisce il ticchettio di un conto alla rovescia iniziato da tempo. Nella seconda c’è una deriva piuttosto grottesca, caratterizzato da tanto sangue e violenza anche esagerata, ma il finale ritira tutto sù, mettendo in secondo piano i venti minuti precedenti e arrivando ad un risultato finale di tutto rispetto.
Un po’ come fece Jonathan Demme nel sottovalutato remake di The Manchurian Candidate, c’è un grande utilizzo degli elementi sonori, con un martellamento di bassi degno rappresentante di un cuore in continua e accelerata pulsazione, così ccome del resto accade al nostro protagonista, uno stuntman specializzato nella guida, che si fa tirare dentro ad un brutto giro di rapine e tradimenti in nome di un amore impossibile. Ryan Gosling si conferma come uno dei più bravi attori under 30 (ok, li ha appena compiuti, ma i personaggi che interpreta sono più giovani) in circolazione, non c’è ruolo che non gli riesca bene, che sia quello del sofferto innamorato di Blue Valentine che quello qui molto muscolare del guidatore che è meglio non fare arrabbiare, un po’ come il cavaliere nero di Gigi Proietti. Bravissimi e ben utilizzati anche i vari Ron Perlman, Albert Brooks e Carey Mulligan e seppur con una particina, la formosa Chrisina Hendricks di Mad Men, dimostrazione del fatto che questo regista, oltre che scrivere e girare, sappia anche scegliersi bene il cast, reinventando attori in ruoli a loro insoliti. Drive probabilmente non sarà Palma d’oro come Tarantino e il suo Pulp Fiction nel 1994, è un film di frattura rispetto alle altre pellicole viste sulla Croisette, potente, che rimarrà a lungo scolpito negli occhi di chi ha la fortuna di vederlo.
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