Un hollywoodiano con la faccia da animale

Un hollywoodiano con la faccia da animale

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Con quella faccia da caratterista non era facile arrivare a parti da protagonista e infatti ha arrancato Benicio Del Toro a farsi valere come attore capace di interpretare qualsiasi ruolo. Con quelle occhiaie, quei lineamenti latini, quell’aria da grande sfasciato (da alcohol, droga o donne, poco importa) e da figlio di buona donna non è stato facile sfondare nella Hollywood dei bei volti.
E infatti ci sono voluti 10 anni per uscire dall’anonimato, 10 anni e un bel colpo di fortuna che porta il nome di I soliti sospetti, il piccolo grande film di Bryan Singer che ha lanciato Kevin Spacey nell’Olimpo dei grandi conteneva anche un parte non male per Del Toro, il quale nonostante la giovane età (28 anni circa) poteva vantare già almeno 10 anni di esperienza come comparsa in serie TV o film.

Dopo I soliti sospetti la sua carriera cambia ma non i suoi ruoli, diventa l’interprete d’elezione per le parti da cattivo, ottiene un ottimo ruolo da quell’altro schizzato di Terry Gilliam in Paura e Delirio a Las Vegas (probabilmente l’unico film in cui due drogati che di più non si può sono i protagonisti) e comincia giustamente a pretendere. Rifiuta copioni, gira meno film l’anno e accetta le parti più grosse. Arriva così nel 2000 Traffic, storia a segmenti di Soderbergh in cui lui è protagonista del proprio segmento. Interpreta un politico, messicano. Dunque protagonista si, ma pur sempre fortemente connotato dai tratti somatici.

E’ poi la volta di The Hunted, La Promessa, Sin City e 21 Grammi dell’altro messicano Iñárritu, film nei quali lentamente cerca di svincolarsi dal suo corpo, dalla sua maschera di attore fortemente connotato, arrivando anche ad interpretare uomini all’opposto rispetto ai suoi primi ruoli.
Ma sarà solo con Noi due sconosciuti che avrà modo davvero di mostrare un sè alternativo compiendo tutto il percorso dal vecchio al nuovo Benicio. Nel film infatti il suo personaggio passa da essere completamente inebetito dall’alcohol ad essere un forte veicolo emozionale, il catalizzatore dei sentimenti inespressi di tutti gli altri personaggi della pellicola di Susanne Bier.
Arrivato a questo punto della sua carriera Benicio Del Toro potrebbe fare di tutto e invece no.

Dopo Noi due sconosciuti arrivano altri due personaggi disegnati sulle sue fattezze ma questa volta per sua volontà. Prima il Che Guevara di nuovo con Soderbergh, una prestazione mimetica come si conviene ad Hollywood che ne esalta le capacità imitatorie oltre alla naturale somiglianza con il guerrigliero cubano e poi Wolfman, progetto accarezzato e cullato a lungo dallo stesso attore nel quale il suo volto posseduto e animale si trova casa.
Avendo scelto egli stesso di realizzare il remake dell’omonimo film degli anni ’30 come protagonista Del Toro si presta al confronto con Lon Chaney Jr. (il make up è identico) ma soprattutto accetta di utilizzare il suo volto, le sue espressioni e le sensazioni che gli spettatori hanno già collegate a quei lineamenti (cose che hanno di certo più a che vedere con gli inferi che con il paradiso) per arrivare in fondo ad un ruolo che pone lui e il suo corpo là dove è sempre stato, a metà tra uomo e animale.

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