Scusa ma ti voglio sposare, la recensione in anteprima

Scusa ma ti voglio sposare, la recensione in anteprima

Di Gabriele Niola

Scusa Ma Ti Voglio Sposare Poster ItaliaRegia: Federico Moccia
Cast: Raoul Bova, Michela Quattrociocche, Francesco Apolloni, Luca Angeletti, Pino Quartullo, Cecilia Dazzi, Ignazio Oliva, Francesca Ferrazza, Francesca Antonelli, Andrea Montovoli, Beatrice Valente Covino
Durata: 105 minuti
Anno: 2010

La caratteristica più importante dell’ultimo film di Federico Moccia sembra essere il cambio di target. Il secondo capitolo della storia tra Alex e Nikki non è più rivolta alle ragazzine (target storicamente attribuito, non sempre a ragione, allo scrittore/regista) ma con un gesto di folle superbia va a prendere il pubblico del cinema di Gabriele Muccino, proprio quando è al cinema un suo film incorrendo in impensabili paragoni.
Scusa ma ti voglio sposare infatti non è più il classico romanzetto rosa adattato allo schermo e a Roma Nord cui siamo abituati ma un film in cui le storie del mondo di Alex (lui e i suoi amici), cioè quelle di uomini e donne (ma più uomini) 30/40enni, hanno la meglio. E come nell’universo sentimentale di Gabriele Muccino si tratta di storie che coinvolgono le dualità matrimonio/libertà, fedeltà/tradimento, responsabilità/infantilismo e via dicendo. Da parte invece sono messe le storie dell’universo di Nikki, quelle legate all’amore moccescamente idealizzato (poesie e surf sono gli interessi del fascinoso quasi-rasta con cui Nikki rischia di tradire Alex).

Da parte purtroppo è anche la storia di Nikki e Alex che, sebbene costituisca la parte principale del film, non occupa più quella centralità tematica che aveva nel primo episodio. Il fascino che poteva esercitare sul target giovanil-femminile la storia idealizzata con banalità di un amore che supera i confini dell’età e le difficoltà imposte dai rispettivi contesti di provenienza, è sostituito dalla macchinosa elaborazione di un racconto corale che coinvolge tutti i personaggi che nel primo film erano abbozzati in un unico grande delirio sulla difficoltà di mantenere saldi i rapporti davanti alle difficoltà (che a seconda dei personaggi sono la famiglia, i figli, il lavoro, l’insicurezza…).
Come al solito il film è diretto, scritto e recitato con i piedi ma si distingue dalla massa del restante cinema popolare per una professionalità elevata dei comparti tecnici. Contrariamente ai propri omologhi infatti Moccia si affida a direttori della fotografia, montatori, scenografi… di indubbia abilità, senza lasciare però che esprimano una propria personalità.

L’unica originalità dell’universo moccesco sta nell’aver cercato da sempre di glorificare e portare alla ribalta una categoria sociale esistente solo nelle menti di alcuni spettatori e con la quale evidentemente gradiscono identificarsi. Quella delle ragazze e dei ragazzi che non sono ricchi sfondati (e quindi non si sentono snob) ma nemmeno coatti (che disprezzano con lo snobismo intellettuale che ha chi si è laureato con 86 verso chi non ha una laurea), i quali pur appartenendo ad una borghesia di gran lunga più abbiente di un qualsiasi ceto medio attribuiscono a se stessi valori di “autenticità” e uno stile di vita punk (esilarante la visione dei punk che ha Moccia nel flashback dei genitori) fatto di locali normali etichettati come trasgressivi, di discoteche sulla spiaggia di Ibiza concepite come rave estremi e di oggetti feticcio di un libertarismo anni ’60 come la Harley Davidson (!!).
Difficile che un film simile dal target incerto e forse sbagliato (troppo il pregiudizio anti-moccesco nei 30/40enni e troppa la pretesa di fare un racconto realista invece che romanzato) ripeta i grandi incassi del primo o comunque soddisfi il pubblico.

Ennesimo fenomeno Moccia o tentativo di passaggio ad un altro tipo di pubblico (e forse di cinema)? Qui le altre critiche

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