Eccoci finalmente con il resoconto della nostra chiacchierata con Paco Plaza e Jaume Balaguerò, i registi di Rec 2. La “tavola rotonda” si è svolta in un comodo salottino nei pressi della mitica terrazza dell’Hotel Excelsior, quello dei vip. Poi sono riuscito a strappare una domandina extra ai due in separata sede! Ma andiamo con ordine.
Durante l’incontro ufficiale, i temi trattati sono stati diversi, a partire dal confronto tra il cinema d’autore e quello di genere, ben presente quest’anno alla Mostra e persino in concorso, rappresentato fieramente da The Road e dal nuovo zombie-movie di Romero, Survival of the Dead.
Per Balaguerò e Plaza, tutti i generi, che si tratti di horror, film d’amore o musical, fanno comunque parte del cinema, quindi un festival come Venezia non deve, e giustamente non fa, distinzioni. L’etichetta di genere serve a orientare il pubblico, ma effettivamente si tratta sempre di storie, sempre di cinema. Una diatriba, quella tra cinema d’autore – perciò considerato alto – e genere – basso per definizione – che si può racchiudere e chiudere proprio con la dichiarazione cristallina dei due registi spagnoli: “Per noi film d’autore vuol dire un film nostro, fatto da noi con i nostri collaboratori, con il nostro sceneggiatore”.
Si è parlato poi di soggettiva, e del significato che ha per loro in riferimento alle nuove tecnologie, quali ad esempio i social network. Questi hanno una struttura all’apparenza sociale, ma in realtà soggettiva, perché prevale sempre il punto di vista del singolo che mette on-line i suoi contenuti. Un tema che chiaramente sta a cuore a Balaguerò e Plaza, in quanto si pone al centro di Rec e del suo sequel. “negli ultimi anni, tutti vivono la realtà per mostrarla, tutto viene fatto per mostrare, viene messo in rete. Abbiamo utilizzato la soggettiva in modo che lo spettatore venisse immerso all’interno del film e lo vivesse appieno. Il film ha tre punti di vista, e volevamo proprio che raccontasse un episodio da tre diversi punti di vista”.
Si prosegue ancora parlando dello stile utilizzato, la famosa camera a mano: una tecnica che può apparire confusa, ma che in realtà è molto controllata…
“Lo stile di Rec vuole riprodurre quello che si vede in tv, non stavamo inventando nulla di nuovo. Una delle sfide era che la camera registrasse esattamente ciò che lo spettatore ha bisogno di vedere. Dentro questo caos, che sembra sia filmato per caso, cogli le 3 o 4 informazioni essenziali. Questo deriva da un lavoro precedente di prove con l’operatore e gli attori: in Rec per esempio in una giornata di lavoro di 12 ore, 10 erano di prove e 2 di riprese. Finché riuscivamo a raccontare esattamente quello che volevamo. E’ una pianificazione quasi matematica, ma volevamo anche offrire un po’ di spazio all’improvvisazione e questo ovviamente ci complica le cose. Però, più tutto è pianificato, maggiore possibilità hai di lasciare spazio all’improvvisazione”.
Già in Rec ho avuto l’impressione che il mondo dei videogiochi abbia una certa influenza sulla trama, non tanto sullo stile. Infatti quella scena finale dell’attico, oltre a essere un “livello finale”, contiene anche una “exposition” alla Resident Evil, grazie a un provvidenziale registratore. Rec 2 parte direttamente da quello che era l’ultimo “livello” del precendente e aggiunge nuovi layer alla mitologia. Inoltre presenta elementi stilistici dello sparatutto in prima persona. E’ una scelta voluta?
“Sì assolutamente, questo uso della soggettiva per coinvolgere lo spettatore nell’azione deriva dal mondo dei videogiochi. Noi stessi siamo utenti di videogame. Quindi c’è una sorta di dialogo costante, di relazione continua tra il nostro film e questo mondo”.