Survival of the Dead, la recensione da Venezia

Survival of the Dead, la recensione da Venezia

Di Marco Triolo

Survival of the Dead Devon Bostick Kathleen Munroe 1

Ho la morte nel cuore. Dopo Diary of the Dead non credevo che Romero potesse cadere più in basso, ma evidentemente mi sbagliavo: Survival of the Dead è il suo peggior film di zombie, e per quanto possa far piacere vedere una pellicola di questo genere nella selezione ufficiale di Venezia, ci si chiede davvero perché proprio a Survival sia toccato questo privilegio.

Vorrei chiarire un paio di cose, prima di parlare del film: io sono un grandissimo fan della trilogia originale di Romero, stimo La terra dei morti viventi pur non reputandolo all’altezza dei precedenti e non ho molto gradito Diary, che ho trovato piuttosto banale. Per quanto possa non avere apprezzato quest’ultimo, ho atteso comunque con impazienza questo Survival, sia perché Romero ha creato dei grandi capolavori, sia perché già in passato ha “scazzato” diverse volte, ma è sempre stato in grado di seguire un film mediocre con uno di grande livello. Perciò, ho tenuto una mente aperta (ops, brutto gioco di parole, in questo caso) mentre entravo in sala, nonostante un amico lo avesse definito “una puntata di Hazzard con gli zombie”. Ma chi se ne frega, mi dico. Romero si è liberato di quella fastidiosa telecamera a mano e ha girato un film pieno di zombie e redneck? Dove trovo il biglietto?

Per chi non sapesse la trama di quest’ultima fatica di Romero, eccola: Survival segue le vicende di un gruppo di soldati che hanno disertato dopo l’apocalisse descritta in Diary. Per la prima volta in un film di Romero, ritroviamo dei personaggi visti nel capitolo precedente, di cui questo è un dichiarato sequel, o meglio uno spin-off. Nicotine Crocket (Alan Van Sprang) e la sua gang erano apparsi brevemente nella scena in cui i militari assaltano il camper su cui viaggiano i protagonisti di Diary, una sequenza che viene richiamata all’inizio di questo seguito. Crocket e compagnia sopravvivono grazie a furti, di scorte e armi, e non rinunciano a uccidere se necessario. In una di queste operazioni incontrano un ragazzo, che mostra loro un video postato su internet: un uomo, James O’Flynn (Julian Richings), invita i sopravvissuti a raggiungere la sua isola, ultimo rifugio da un mondo ormai impazzito. Il gruppo decide dunque di tentare l’impresa, ma si ritroverà a spalleggiare gli O’Flynn in un’assurda lotta contro la famiglia rivale dei Muldoon.

Romero inserisce elementi western per giustificare una metafora fin troppo banale: anche se il pianeta affronta la catastrofe, gli uomini non sono in grado di mettere da parte le proprie divergenze e, anziché allearsi per sopravvivere, si uccidono a vicenda come nel vecchio west. Un’idea già sentita, ma che di per sé non sarebbe ingombrante se supportata da una messa in scena degna di questo nome. E qui casca l’asino.

Perché Romero sembra aver completamente perso il suo tocco personale, la sua lucida visione politica e soprattutto la capacità di confezionare un prodotto di genere che prima di tutto riesca ad intrattenere, e SOLO IN SEGUITO a far riflettere. Anche perché, guardiamoci in faccia: questo è pur sempre un horror, deve fare paura, deve disturbare e fare venire la nausea. E Romero in questo fallisce: primo perché mette in fila una serie di personaggi improbabili, senza spessore e incapaci di imprimersi nella memoria dello spettatore come il Ben de La notte dei morti viventi o il Capitano Rhodes de Il giorno degli zombi. Poi perché ricorre a una serie di scorretti trucchi da horror di quart’ordine, come i “boom” sonori per far saltare gli spettatori sulla sedia.

E infine per colpa di effetti speciali che dire scadenti sarebbe un complimento. Avete presente gli zombie di Resident Evil – il videogioco? Ecco, immaginate che i “tecnici” degli effetti speciali di Survival abbiano copia/incollato quei medesimi zombie nelle inquadrature di questo film, senza nemmeno tentare di integrarli nella scena, e avrete un’idea abbastanza precisa della “magia digitale” al lavoro qui. A peggiorare le cose, ci si mette proprio il regista che inserisce, quando meno te l’aspetti, zombie a caso giusto come scusa per mostrare una sequela di ammazzamenti originali. Ehi, guarda, c’è uno che infila l’estintore in bocca al morto e gli fa schizzare gli occhi dalle orbite! Troppo divertente! E che fa quest’altro? Ah, gli da fuoco con il razzo di segnalazione e ci si accende la sigaretta!! Che simpatico!!

Ecco, poi c’è il problema dei protagonisti: il gruppo di soldati passa dallo status di bastardi senza pietà a quello di bravi ragazzi nel tempo in cui voi potreste dire “crostata alla frutta”. Ah, e ricordate la feroce critica anti-militarista de Il giorno degli zombi? Dimenticatela, come se l’è dimenticata il vecchio George. Almeno il finale di salva, quando scatta la carneficina e vediamo finalmente un po’ di sbudellamenti old school, senza pixel ma con tanto succo di pomodoro. Ma oramai è troppo tardi, davvero.

Sentite, io ho il massimo rispetto per l’uomo George Romero, credo sia (stato) uno dei più grandi cineasti americani e sicuramente uno dei massimi maestri dell’orrore. Ma quei tempi ormai sembrano passati e non mi pare che ci possa essere una via d’uscita. Forse l’unica è che Romero si scordi gli zombie e si dia da fare per produrre qualcosa di nuovo. Io sarò sempre qui ad attendere fiducioso.

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