Morto un mostro, se ne fa un altro. Dopo il successo di Dracula, capite le potenzialità che le storie terrificanti potevano avere, la Universal cominciò a sfornare pellicole di genere con un ritmo vertiginoso, portando alla ribalta nuove creature e nuovi interpreti.
Diretto successore – anche per motivi di importanza letteraria – del famoso conte vampiro fu Frankenstein, film diretto da James Whale, praticamente contemporaneo a quello di Tod Browning.
Seguendo un possibile filo logico/cinematografico, anche in questo caso il ruolo principale – quello della Creatura – fu offerto a Bela Lugosi, ma l’attore rifiutò per vanità (il trucco copriva in maniera determinante il suo volto). Come la storia ci ha insegnato, sono azioni come questa a determinare il destino delle persone. La rinuncia dell’attore ungherese permise a Boris Karloff (caratterista che poteva vantare un nutrito curriculum, sebbene poco conosciuto) di calarsi negli ingombranti panni del mostro, diventando una delle figure più celebri del cinema di genere. Errore di uno, fortuna dell’altro, almeno così si dice.
Il film di James Whale nasce dunque così, cavalcando l’onda di un passato successo. Nonostante questo non ha nulla da invidiare al suo padrino cinematografico. Stilisticamente parlando è una spanna sopra l’opera di Browning (che peraltro si dice abbia partecipato pochissimo alle riprese di Dracula) e presenta un personaggio – il Mostro – che per forza di cose riesce a fare più presa sul pubblico. Questo perché non ha nessuna colpa, se non quella di essere stato creato contro la sua volontà.
Ecco allora che le tematiche di una pellicola commerciale diventano d’un tratto alte e per niente scontate. Frankenstein come apologia della scienza sbagliata? Una battuta per lungo tempo censurata (e non presente nel doppiaggio italiano) potrebbe spiegare molte cose al riguardo. La dice il Dr. Frankenstein subito dopo il suo esperimento, una volta (ri)animato quel collage di parti umane: “Ora so cosa si prova ad essere Dio!”.