Lezioni d’amore: Screenweek intervista Isabel Coixet

Lezioni d’amore: Screenweek intervista Isabel Coixet

Di Marco Triolo

In occasione di una conferenza stampa tenutasi alla Fnac di Verona, abbiamo fatto qualche domanda alla regista spagnola Isabel Coixet, a cui la 13esima edizione di Schermi d’Amore dedica una retrospettiva. La Coixet ha parlato del ruolo di regista, del rapporto tra letteratura e cinema, della musica e di molto altro. Il tutto nell’intervista che potete leggere qui sotto. Si parte!

Il suo ultimo film, Elegy – Lezioni d’amore (QUI la recensione), è tratto da un romanzo di Philip Roth intitolato The Dying Animal (L’animale morente). Perché ha scelto di cambiare il titolo?

A dire la verità, io avrei preferito l’originale, The Dying Animal, però i produttori americani hanno pensato che un film con la parola “morente” nel titolo non sarebbe andato tanto bene negli Stati Uniti. All’inizio mi sono scontrata con loro per mantenere il titolo originale del romanzo di Philip Roth, ma poi ho scelto di battermi più per mantenere il finale che avevo girato e per avere il final cut, cose che ritenevo più importanti. Elegy è un titolo che in fondo non è poi estraneo alla storia del libro.

Perché la scelta di Penelope Cruz come protagonista?

Nel caso di Penelope, il suo nome era già nel progetto, anzi è stata proprio lei a chiamarmi per chiedermi di girare il film, dicendo che senza di me non l’avrebbe fatto. Io sono stata contenta di accettare, per dare un mio punto di vista a questo romanzo.

Lei privilegia storie originali o derivate da romanzi? Secondo lei il rapporto tra letteratura e cinema è ancora oggi proficuo?

La mia vita senza me è tratto da un racconto breve, che io stessa ho scelto di portare sullo schermo e che ho dovuto trasformare tantissimo per realizzare il mio racconto. Al contrario, nel caso di Elegy l’incarico mi è stato offerto [dai produttori]. Non è semplice trasportare fedelmente un romanzo al cinema, anzi è molto raro [riuscire]. Non penso che rifarò un’esperienza del genere, perché ho passato mesi difficili nel dover paragonare me stessa a Roth e nel cercare di fondere il mio e il suo punto di vista.

Lei ritiene importante seguire, come regista, tutte le fasi della lavorazione, dalla pre-prozione fino alla post-produzione?

Mi piace avere il controllo di tutto, anche del montaggio, anche perché secondo me è per questo che i registi sono pagati. Finora sono stata molto fortunata, perché sono sempre riuscita a mantenere il controllo del montaggio finale, cosa che si dice sia rara a Hollywood, perché spesso la produzione ci mette lo zampino. Nel caso di Elegy, film prodotto da un studio americano, ho avuto fortuna perché hanno rispettato assolutamente il contratto. Io ho cambiato il finale – che non è né quello del libro né quello della sceneggiatura – ma i produttori sono stati ragionevoli e me l’hanno fatto tenere come volevo io.

Però, la prima settimana di riprese è stata un inferno: i produttori non capivano perché volessi operare di persona la macchina da presa, visto che nell’industria americana – a parte Steven Soderbergh – nessuno lo fa.

Ha detto che ha cambiato il finale rispetto al libro. Cosa ne pensa dunque del motto “i migliori film tratti da romanzi sono quelli che tradiscono i romanzi originali”? E’ d’accordo o pensa che ci debba essere fedeltà nella trasposizione?

The Dying Animal non è un grande romanzo, non arriva di certo al livello di American Pastoral, che secondo me è il capolavoro di Roth. Mi hanno anche proposto di girare American Pastoral, ma ho rifiutato perché mi sembra impossibile coglierne l’autentica essenza. Elegy è un racconto assolutamente autobiografico; conosco Philp Roth e vi assicuro che ogni parola che esce dalla bocca di David Kepesh [il personaggio di Ben Kingsley] è sua.

Al contrario, per me non è una storia autobiografica. Quindi il film si sgancia da questo, per raccontare il percorso di un personaggio, e nel finale ho preferito dare più speranza che nel libro. Penso che il mio finale sia in qualche modo più coerente con il film. Roth da parte sua ha apprezzato, e se l’ha detto vuol dire che lo pensa davvero, perché è uno che dice le cose come stanno, senza filtri.

Lei realizza dei film che appartengono a un filone – quello melò – che il pubblico ha sempre apprezzato. Lei pensa anche a questo, quando gira un film? O le interessa solo raccontare le sue storie?

Non ho alcuna aspirazione commerciale. Penso al pubblico, ma non penso a quanto incasserà il film. Ovviamente devo giustificare il fatto che i film non li giro a Barcellona, dietro casa mia, ma a 10000 km di distanza, l’ultimo addirittura in Giappone. Però non lo faccio per una questione commerciale, ma per potermi estraniare dal mio vissuto quotidiano e riuscire a raccontare questo vissuto in maniera più approfondita e universale.

Ha detto di curare personalmente ogni aspetto dei suoi film. Che cosa ci può dire, dunque, delle musiche?

La musica è una parte importante dei miei film. Sono una grande appassionata di musica e l’ascolto spesso, perciò quando scrivo una sceneggiatura penso che anche quei personaggi ascoltino le canzoni che metto nella colonna sonora. Spero vivamente che nei miei film mai un solo brano venga cancellato, perché per me la colonna sonora è molto importante. Nel caso di Elegy, siccome il protagonista [David] suona il pianoforte, inizialmente si era pensato di assumere un compositore, magari premio Oscar, per comporre le musiche. Io mi sono opposta, perché essendo il film basato su un personaggio che suona il pianoforte in casa, ritenevo non fosse necessario avere una colonna sonora altrettanto forte che magari mettesse in secondo piano i personaggi stessi. E quindi ho pensato di utilizzare brani di musica classica, che trovo più vicina alla vita del personaggio.

Quali film hanno influenzato la sua carriera, quali autori?

Non mi sono formata a una scuola di cinema, al contrario sono laureata in storia. Penso che il punto di vista di un regista non si crei solo con i film, ma anche con i libri, con la pittura. Tra i registi che mi hanno segnata, di sicuro ci sono Truffaut e Bergman. Ho visto Il settimo sigillo quando avevo 13 anni… credo di non averci capito nulla, ma mi ha molto colpita. Poi… le prime pellicole di Scorsese, molto crude. Rossellini, BertolucciLa commare secca, Prima della rivoluzione, Il conformista. Adesso mi piacciono molto i film di Wong Kar Wai.

Cosa ne pensa del doppiaggio dei suoi film negli altri paesi?

Preferisco non vederli [doppiati]. Nonostante sappia che per alcuni spettatori può essere faticoso leggere i sottotitoli, credo che solo guardando un film in lingua originale si comprenda il lavoro svolto da un attore. Ben Kingsley, ad esempio, non è solo un tizio calvo con la barba, c’è la sua presenza, c’è la sua voce. So che in Italia è una pratica comune, che risale addirittura all’epoca di Mussolini. Ma vedere Kingsley, che ne so, con la voce di Castellitto non sarebbe la stessa cosa.

Quando stavamo girando La vita segreta delle parole, Sarah Polley, che faceva la parte di questa donna bosniaca che non parla tanto bene inglese, passò tre mesi con un coach per imparare a parlare con l’accento, e la gente che non la conosceva pensava fosse bosniaca. Col doppiaggio tutto questo sparisce.

Non crede che però i film non doppiati vadano a scoraggiare un pubblico non specializzato?

Non credo. Penso che leggere i sottotitoli alla fine sia solo questione di educazione.

Lei ha già lavorato con Sergio Castellitto. Le piacerebbe collaborare con altri attori italiani, o girare un film in Italia?

Sì, ho lavorato con Castellitto in Paris je t’aime, ed è stato fantastico, mi ha incantata come attore. Molto più che come regista. Un altro attore che mi piace molto è Valerio Mastandrea, l’ho incontrato a Venezia e si è parlato di fare un film insieme. Mi piacerebbe fare un film in Italia, ma vorrei prima imparare a parlare bene l’italiano, che è un mio sogno nascosto. L’ultimo film italiano che ho visto è stato Caos calmo, che ho trovato un’occasione persa di portare sullo schermo un libro interessante. Però credo che Nanni Moretti sia un bravo attore. […] Mi piacciono i film di Moretti, mi piacciono quelli di Paolo Sorrentino. Manuale d’amore non è roba per me. Mi piacerebbe girare un film a Verona, a Roma. A Venezia no, credo che Venezia sia la città più infilmabile del mondo.

Lei ha lavorato anche con Monica Bellucci…

Sì, ma prima che Monica Bellucci fosse Monica Bellucci. Avendola conosciuta, posso dire che Monica è una donna adorabile, con un solo problema: è troppo bella. Non si riesce ad andare al di là di quello, quando la vedi.

Avete mai visto la Tour Eiffel? Sì? E la Tour Eiffel divorata da uno stormo di nanomacchine impazzite? No?! Beh, per quello c’è sempre il nostro nuovissimo blog tematico dedicato a G.I. JOE – LA NASCITA DEL COBRA!!

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