Regia: Darren Aronofsky
Cast: Mickey Rourke, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood
Durata: 105 minuti
Anno: 2008
Quel che dicevano un po’ tutti, compreso Wim Wenders, è vero. Il punto vero di forza di The Wrestler è Mickey Rourke e non solo per la forte identificazione tra personaggio e attore o tra trama e sua storia personale.
Mickey Rourke compie una prestazione nettamente sopra le righe in grado di tenere in piedi e dare grande senso ad un film altrimenti pieno di mille difetti. In ogni inquadratura riesce a sfumare le espressioni, riesce a mantenere quella fissità tipica dell’ottuso contaminandola di volta in volta con piccoli lampi di gioia, dolore (psicologico), dolore (fisico), amarezza e consapevolezza, andando oltre le proprie battute.
E così il film si rivela vincente. Anche perchè alla fine The Wrestler, come molte altre pellicole, racconta di sbandati che non vivono fino in fondo il sogno americano, che non riescono ad essere dei vincenti e che devono venire a patti con tutto ciò. Aronofsky fa tutto questo senza innovare ma applicando in pieno la struttura del western crepuscolare. C’è l’eroe che ormai non è più tale e combatte senza motivazioni solo perchè è la sua vita, c’è la spogliarellista di buon cuore che condivide con lui un destino infame, c’è un mondo nel quale si sente l’odore della morte di un’età dell’oro e c’è lo scontro finale affrontato con nichilismo.
Con un’intelligenza che avevamo visto solo in Pi Greco, il regista fa la scelta giusta e si concentra sul suo protagonista, prevedendolo in ogni inquadratura, stando attaccato alla sua faccia distrutta (che non a caso all’inizio è nascosta), seguendolo da dietro, da lato e da davanti, non mollandolo mai e incentrando anche tutte le vicende secondarie (la spogliarellista, la figlia e il mondo del wrestling di serie B) sempre e solo intorno a lui e in funzione sua. Unica concessione autoriale è quell’indagine cronenberghiana che coinvolge altri wrestler tutta centrata sul dolore della carne e la verità dei colpi vissuti sul proprio corpo, realismo necessario ad arrivare al massimo della finzione che è la messa in scena di un incontro di wrestling.
In questo modo passano in secondo piano le molte cadute sul melodrammatico spicciolo (nel film si respira come ogni cosa debba andare male per principio e ogni salita sia funzionale ad accentuare la prossima caduta), le riprese spesso confuse per eccesso di camera a mano, il patetismo e soprattutto la retorica molto americana (e molto poco messa in discussione) del “perdente”.