Secretary (id., Usa 2002 – Drammatico; 104) di Steven Shainberg con James Spader, Maggie Gyllenhaal, Jeremy Davies, Lesley Ann Warren, Stephen McHattie, Patrick Bauchau, Jessica Tuck, Oz Perkins, Amy Locane, Mary Joy.
Uscita da poco da un istituto psichiatrico, la giovane Lee Holloway si mette alla ricerca di un lavoro per calmare le sue tensioni: la assume un dimesso avvocato, tanto incline alla sottomissione dei suoi sottoposti quanto lei, silenziosa masochista, ami essere la schiava di altri. E, alla fine, si troveranno perfettamente l’uno nelle braccia dell’altra.
Una folgorante storia d’amore e di passioni tabù, tanto più bizzarra in quanto calata profondamente in una realtà grigia e anonima: la sceneggiatura di Erin Cressida Wilson gioca sulle sfumature e gli impercettibili cambiamenti d’umore, mentre la regia di Shainberg (il cui primo lungometraggio è inedito in Italia) si dimostra assai acuta e raffinata nel sondare due psicologie fragili e conflittuali. Di tanto in tanto compare la voce narrante della protagonista, come in una sorta di fiaba perversa e per questo ancora più amabile, mentre la colonna sonora di Angelo Badalamenti diffonde allegria, malinconia e tragedia con noncuranza: ma di bello c’è che nessuno si permette di dare giudizi netti sulle persone, visto che ogni atto umano – anche quello che sembra più abietto e turpe – nasconde in realtà un passato (o una logica) che merita rispetto e comprensione. Tocchi da commedia gentile, ritmo lento ma clima di opprimente morbosità, svagati inserti da potenziale melodramma in un vago cocktail che ha fatto parlare variamente di Burton, Lynch, Cronenberg e Haneke: ma Shainberg dimostra, invece, di avere una sensibilità tutta personale, tenera e crudele, ludica e lucida. Spader sembra proseguire il suo personaggio di Crash, mentre il finale stupendamente erotico butta all’aria molte convenzioni/pregiudizi e spezza una lancia in favore della totale libertà esistenziale: dolore e piacere possono assolutamente equivalersi, tanto che si può essere pienamente appagati anche nella sofferenza comune. “Finalmente un film dove quello che siamo – quella scatolina piena di cose belle e terribili, struggenti e ripugnanti – viene accettato dall’altro come un dono, senza condizioni e senza compromessi”. (Silvia Colombo). Pur di premiarlo al Sundance, il presidente della giuria John Waters si è inventato “il premio al film più bizzarro”.