Londra, 2027. Lunghi piano-sequenza hanno la forza del racconto, del reportage di guerra, cui purtroppo, siamo stati ormai abituati dai cine giornali quotidiani. Il mondo è minacciato e il male peggiore è sempre lo stesso: l’uomo.
Questa volta è la nostra fertilità messa in pericolo, la nostra stessa sopravvivenza, l’idea base di una discendenza, di un futuro… tutto viene meno. Il genere umano non è più in grado di autorigenerarsi e quando a 18 anni muore il più giovane dei terrestri, tutto precipita nel caos e nelle tenebre.
Il film di Alfonso Cuaron è una pellicola cupa, pregna di un pesante fardello. L’annuncio di un’Apocalisse non così lontana, il 2027 è ormai dietro l’angolo è piuttosto credibile, forse post datando la fine di tutto, ma non sono così assurde le tesi illustrate e lo svolgersi delle vicende.
Theo (Clive Owen) ex attivista e ormai stanco e pigro burocrate fagocitato dal sistema, viene trascinato in qualcosa più grande di lui: una profuga è rimasta incinta e in lei vive la speranza dell’umanità.
Clive Owen è bravissimo nella sua parte di anti-eroe, posato e alle volte snervante nella sua più completa passività, quasi inattività, chiamato a prendere decisioni che vorrebbe evitare. Apprenderemo i motivi di questo suo comportamento, che ci permetteranno di non giudicarlo.
Tutto ci viene narrato come se un inviato speciale, seguisse camera in spalla, una qualsiasi incursione delle tante operazioni sparse nei Paesi non occidentali. Lo stesso protagonista è quasi sempre presente, perché è la sua “missione” quella da raccontare, forse ancor più che il messaggio di speranza che cerca ad ogni costo di salvaguardare.
Come se ce ne fosse bisogno, l’unica raccomandazione è quella di non perdere neanche un minuto della pellicola, a rischio di comprendere il senso generale del tutto, ma di perdere spunti fondamentali che forniscono un essenziale background per il prosieguo de I Figli degli Uomini (Children of Men).