Grigio, bluastro, freddo: è il mondo dell’impresa italiana. Quella del Nord, quella che osserva quasi raggelata e impotente la crisi dell’industrializzazione, l’avanzata delle economie emergenti, la morsa in cui la stringono politica e finanza, mai interessate alla crescita, all’innovazione e alle idee, ma solo a spremere più denaro possibile. Questa è la realtà costruita da Giuliano Montaldo nel suo L’Industriale: una discesa agli inferi non solo del sistema produttivo italiano ma anche dell’umanità che dovrebbe esserne il motore propulsivo.
Pierfrancesco Favino interpreta il titolare di un’azienda specializzata in pannelli fotovoltaici e prossima al fallimento. L’unica speranza di salvezza sarebbe una società tedesca interessata all’acquisto di una parte del suo pacchetto azionario, ma i creditori incombono alla porta riducendo i margini di trattativa. Nel frattempo”l’industriale” si trova a dover fronteggiare anche il sospetto di un tradimento da parte della bella e ricca moglie (Carolina Crescentini), attratta da un ragazzo rumeno che lavora in un garage. Intorno a loro la galleria di personaggi che nell’immaginario comune rappresentano i poteri forti intenti a logorare il Paese: la ricca suocera possidente che suggerisce all’imprenditore di “sporcarsi le mani” con scambi di tangenti e favori politici, il banchiere privo di ogni scrupolo, le finanziare dedite allo “strozzinaggio legalizzato”, come lo definisce lo stesso Favino nel film. Il tutto sullo sfondo di una Torino più cupa che mai, dove gli unici colori rimasti sembrano le esauste bandiere rosse delle folle dei manifestanti.
Dopo Il gioiellino di Andrea Molaioli, ecco un altro tentativo da parte del cinema d’autore di addentrarsi nelle dinamiche corrosive della società italiana, partendo proprio da quella classe imprenditoriale a cui il film consegna l’onere di incarnare l’endemica incapacità all’evoluzione e al riscatto. E proprio come nell’opera di Molaioi, anche qui il “j’accuse” sembra in fondo attenuato da uno sguardo compassionevole verso il protagonista, spinto all’immoralità da un sistema potente ed intoccabile, di cui – udite udite – sembrano far parte anche i lavoratori della fabbrica e il famigerato motto del “tengo famiglia” .
E se la classe operaia continua a non andare in paradiso, non meglio sembra passarsela il Paese, che Montaldo rappresenta attraverso una città completamente desaturata, più plumbea di quanto l’abbia mai immaginata finora la cinematografia italiana, pervasa da quella decadente e squadrata eleganza sabauda dietro cui si nasconde la completa dissoluzione di ogni principio etico e di giustizia. L’industriale insomma non è un film nuovo, nella costruzione e nei contenuti. Si tratta piuttosto di un film che aderisce a un’epoca e all’atmosfera asfissiante che la caratterizza: una specie di requiem, solenne e rassegnato, sostenuto anche nei passaggi più prevedibili da un crucciato Pierfrancesco Favino e dalla maschera di afflizione ben indossata per raffigurare il crollo forse definitivo di una visione del mondo e del progresso.
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