Recensioni da Venezia: Soul Kitchen e La doppia ora

Recensioni da Venezia: Soul Kitchen e La doppia ora

Di Marco Triolo

Questa mattina mi sono alzato di buon’ora per vedere due film, entrambi in concorso. Ora che li ho visti, sono convinto che se uno dei due non riceverà almeno un premio, qualcuno la pagherà. Passiamo ai film…

Soul Kitchen Fatih Akin Moritz Bleibtreu Birol Ünel 9

Soul Kitchen
di Fatih Akin

Ecco, se leggete l’enciclopedia, alla voce “commedia” troverete Soul Kitchen. Ovvero, come fare davvero una commedia che sia divertente, toccante e in definitiva non abbia nessuno dei difetti che generalmente si associano a questo genere in Italia, in primis una certa incapacità di ritrarre personaggi credibili da cui sentirsi realmente coinvolti e rappresentati.

Soul Kitchen ha una storia molto semplice: parla di due fratelli di origini greche ad Amburgo. Uno, Birol Unel, ha acquistato un vecchio magazzino cadente e l’ha trasformato in una tavola calda di quart’ordine, ma gestita con grande amore. L’altro, Moritz Bleibtreu, è appena uscito di galera e cerca di riscattarsi in qualche modo, anche attraverso l’amore per la cameriera del ristorante. Entrambi dovranno unire le forze per gestire situazioni di cuore, affaristi senza scrupoli che mirano al loro terreno, e un rapporto che a volte può essere difficile.

Ma, come nella migliore tradizione della commedia americana, rivista con un tocco europeo – su tutti, l’amore per i bassifondi e per una certa umanità ai margini – alla fine l’amore trionfa e la vicenda si chiude con un bel lieto fine. Ma che lieto fine! Mica una pappardella buonista e consolatoria, no. Al contrario, il regista Fatih Akin lascia un bel margine di rapporti irrisolti e di situazioni sgradevoli che non trovano una vera conclusione.

Ma prima di tutto, Soul Kitchen è un film divertentissimo, piacevole, a tratti persino commovente nel modo giusto, e saprà conquistare il pubblico come fece un film tedesco dal tono simile, Good Bye, Lenin.

La doppia ora Ksenia Rappoport Filippo Timi Gaetano Bruno 24

La doppia ora
di Giuseppe Capotondi

C’è stata un’incomprensibile aria di delusione, intorno a questo film. Incomprensibile, perché come si può odiare quello che è senza dubbio uno dei migliori film italiani degli ultimi anni? Sì, è un’affermazione grossa, ma è così. Quante volte ci siamo lamentati della mancanza di prodotti assimilabili al genere, in Italia? E quante volte abbiamo guardato con rimprovero alla nostra tendenza “neo-neo-realista”, per certi versi preziosa ma anche ingombrante e, spesso, limitante? E allora, perché quando finalmente qualcuno ha le palle, scusate il termine, di proporre un film diverso e soprattutto di girare quello che a tutti gli effetti è un thriller psicologico, ci lamentiamo comunque?

Dico tutto questo perché ho saputo stamattina che il Corriere ha parlato di “delusione”, e perché, dopo la proiezione, il pubblico ha risposto con un applauso debole debole. Ma dico, stiamo scherzando?

La doppia ora è un grandissimo film d’autore, e allo stesso tempo un thriller di quelli che ti incollano alla poltrona per quasi due ore, regalandoti anche una bella dose di spaventi vecchia scuola. La sceneggiatura è una formula magica sospesa tra Hitchcock e Lynch, però io c’ho visto anche una bella dose di Philip K. Dick, il grandissimo autore di Blade Runner. In particolare mi riferisco al romanzo Ubik, dove non si riesce a distinguere la realtà dal sogno. Anche qui, due realtà rapiscono la protagonista Sonia (un’intensa Ksenia Rappoport) in un turbine di follia, dove risulta impossibile distinguere ciò che è reale da ciò che è solo immaginazione. E la geniale trovata di Giuseppe Capotondi è quella di non risolvere affatto il dubbio, checché ne pensino gli spettatori. Perché alla fine, dopo che tutto sembra risolto, basta un particolare per rimescolare le carte.

Il film trae dunque vantaggio da una sceneggiatura insolita nel panorama italiano, crea un’atmosfera da brivido – che esplode in un paio di salti sulla sedia davvero degni di nota – e si avvale anche di attori molto bravi, come Filippo Timi, che regge alla perfezione il suo ruolo di ambiguo “loser”. Questo è cinema, ragazzi!

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