The Walking Dead: la recensione della sesta stagione completa

The Walking Dead: la recensione della sesta stagione completa

Di Andrea Suatoni

Lo show che prende le mosse dal fumetto di Robert Kirkman è stato rinnovato per una settima stagione, che vedremo sugli schermi a partire da ottobre sul canale americano AMC. Fra puntate filler sempre meno incisive, comunità di sopravvissuti organicamente strutturate e sottotrame romantiche, ecco la nostra recensione della stagione sei.

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UN MIGLIORAMENTO SENSIBILE

La prima stagione di The Walking Dead è stata un evento che ha creato un cult. In sole 6 puntate (anzi, forse proprio grazie al ridotto numero di episodi), le vicende di Rick Grimes sono riuscite ad appassionare più di 5 milioni di fan, che nel corso degli anni successivi hanno più che triplicato il loro numero. E’ ironico notare ora come la stagione che più si avvicina ai toni di quella che ha fatto da apripista sia l’unica che abbia visto un calo di ascolti, che evidentemente non riescono ad andare di pari passo con la qualità della serie.
Ma se The Walking Dead è così criticata, se è così difficile trovarne un vero estimatore, come riesce ad avere un così alto seguito?

La risposta è tanto banale quanto profondamente nerd: parla di zombie. Gli scenari apocalittici e post apocalittici in generale si prestano perfettamente ad una narrazione ansiogena e velocemente ritmata; i morti viventi aggiungono quella possibilità di morte costante che lo spettatore inconsciamente (ma neanche troppo) brama e teme allo stesso tempo. Una volta affezionatisi ai personaggi, l’idea che uno di questi possa passare a miglior vita lega il pubblico alla visione più di quanto non faccia una trama ben scritta o una struttura tecnicamente perfetta. Elementi che in effetti a The Walking Dead mancano completamente.

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STAGIONE SEI

La stagione si è aperta con l’invenzione di sana pianta di un problema per i sopravvissuti: i protagonisti avevano ormai trovato una sorta di pace dietro le mura di Alexandria, e questo non poteva alla lunga fare bene agli ascolti. Fin dalle prime battute, i vari colpi di scena si susseguono sulla linea delle coincidenze più assurde: i Lupi attaccano Alexandria proprio nel momento in cui Rick e soci sono lontani, costretti ad anticipare il piano di allontanare la mandria in conseguenza ad un evento assolutamente casuale; mandria che viene spinta verso la città da un clacson casualmente attivato da un incidente. Quando la mandria arriva, sfortunamente una torretta cede e sfonda proprio un muro che si trova sulla strada di questa. Una sequenza di eventi che in parte fa sorridere ma che in parte abbracciamo con gioia, perché la noia costante presente nelle precedenti stagioni, seppure con trovate al limite dell’assurdo, questa volta quasi non trova spazio. Addirittura la puntata su Morgan, per quanto fuori contesto e atta a spiegare una filosofia ancor più decontestualizzata, riesce ad inserirsi nell’economia della serie come una smorzatura quasi doverosa.

La puntata dopo il mid season, in cui siamo costretti a dare l’estremo saluto a Jessie e i suoi due figli, è forse il momento più alto della stagione. La coralità estrema, insieme alla solidarietà contagiosa che si estende di porta in porta spingendo tutti gli abitanti di Alexandria a scendere in strada e a combattere insieme per la propria vita (ma anche e soprattutto per la salvaguardia della propria comunità) apre un nuovo capitolo che forse sarebbe stato più interessante da sviluppare, rispetto allo spazio dato a vicende come la ricerca di Deanna, l’innamoramento di Abraham o la morte di Denise.

L’arrivo di Negan viene gestito in un crescendo che riesce a montare un’aspettativa affatto deludente quando infine il capo dei Salvatori irrompe sulla scena insieme alla sua Lucille. Il carisma di Jesus, apparso fin troppo poco, non si riesce a bissare, ma la costruzione ansiogena della scena e la buona interpretazione di Jeffrey Dean Morgan ci fanno ben digerire il lungo monologo con il quale il presunto villain (hey, finora Negan non ha fatto altro che difendersi da un attacco crudele ed assassino) si presenta.

Sullo sfondo, l’apparente tranquillità della vita ad Alexandria ha portato a sviluppare semplici e asciutte relazioni amorose: se Michonne e Rick insieme ci fanno storcere il naso (soprattutto perché l’avvicinamento avviene subito dopo la morte di Jessie, precedente fiamma dello sceriffo) e l’omosessualità di Denise ci sembra un po’ forzata, la cotta di Abraham per Sasha acquisisce una dolcezza che pur nella sua estrema linearità non appare incoerente. Rimane da definire il rapporto fra Morgan e Carol (e a livello estremamente embrionale era sembrato anche quello fra Aaron e Daryl…?), trovatisi nel season finale a dover entrambi fare i conti con sè stessi ma in relazione alle scelte dell’altro.

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INVERSIONI DI ROTTA

La stagione sei è stata quella che più ha cercato di effettuare cambiamenti proprio lì dove non ce n’era alcun bisogno. Il perfetto lavoro effettuato su Carol, il miglior personaggio dalla terza stagione a questa parte nonché la migliore storyline delineata fin dall’inizio, è stato completamente smantellato. La coerenza interna del personaggio non ne viene però realmente intaccata: Carol, incontrastata protagonista della stagione, era una donna debole che ha dovuto trovare un’enorme forza in sé stessa per andare avanti; una forza che riesce a mantenere intatta solamente cancellando le proprio emozioni. Nel momento in cui quelle emozioni riescono a farsi avanti, complice la tranquillità ottenuta tramite una quasi infinita serie di continue e serrate battaglie, la fragilità della donna è riemersa prepotentemente.

Daryl, che da personaggio centrale è stato ridotto a ribelle in motocicletta, sembra iniziare a non avere più un reale ruolo: da burbero col cuore tenero a burbero vendicativo a tenero nostalgico a incosciente adolescenziale il passo è di volta in volta davvero troppo breve, mai sviluppato e sostanzialmente inutile. Resta da vedere cosa se ne faranno gli showrunner di questo personaggio inesistente nel fumetto, se sopravviverà a Negan.

Enid iniziava ad essere un personaggio interessante nel suo nichilismo introverso: l’avvicinamento a Maggie e Glenn (forse per sostituire Sophia, che nel fumetto è ancora viva e proprio dalla coppia è stata adottata dopo il suicidio di una Carol mai evoluta) è troppo veloce e fuori da un personaggio che in realtà non eravamo ancora riusciti ad inquadrare ma che ha già cambiato valori ed ideologie di base.

E ancora Dwight, da fuggitivo sperduto a capo di una propria squadra, Eugene, che finalmente ha avuto il suo (inutile?) momento di gloria, Rosita, che finalmente ha avuto addirittura più di una battuta a puntata, la sesta stagione sembra giocata sul tema del cambiamento: anche la condizione solitaria di Alexandria viene ribaltata, facendoci scoprire altre varie comunità rimaste (ma dove?) nell’ombra finora. Fino al cambiamento finale: Rick aveva il controllo, ma il controllo ora è di Negan, forte di un gran nutrito esercito di individui senza morale.

Melissa McBride as Carol Peletier - The Walking Dead _ Season 6, Gallery - Photo Credit: Frank Ockenfels 3/AMC

Se la settima stagione si manterrà sui livelli della sesta, lo show potrebbe continuare ad essere godibile, per quanto ormai l’unica caratteristica sulla quale si basa è la morte. La morte come metodo di narrazione, la morte come fulcro del cambiamento dei personaggi, la morte come colpo di scena, la morte come cliffhanger finale della stagione. Abusandone al punto da anteporla alla pura scrittura: neanche gli autori sanno ancora chi sia morto davvero nel season finale.

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