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Inside Out, la recensione del nuovo film Pixar

Pubblicato il 15 giugno 2015 di Lorenzo Pedrazzi

ATTENZIONE: l’articolo contiene alcuni SPOILER!

Al di là dei prodigi dell’animazione e della narrazione, il mestiere della Pixar ha sempre percorso due binari paralleli che costituiscono il nucleo vibrante delle sue opere: da un lato c’è la rilettura “post-moderna” dell’immaginario collettivo (i supereroi, l’avventura esotica, il prison movie, la fiaba, lo spionaggio, il mito delle corse, la space opera…), e dell’altro c’è la rielaborazione fantastica dei processi educativi, comportamentali ed emotivi che fanno parte del nostro vissuto quotidiano, come il rapporto con il gioco (Toy Story), le paure infantili (Monsters & Co.), il piacere sensoriale (Ratatouille) e il trauma della perdita (Up). Nello specifico, il talento cristallino di Pete Docter ama creare interi universi alle spalle di questi meccanismi, giustificandone il funzionamento con invenzioni complesse, prismatiche, mondi paralleli che brulicano di vita e di conflitti a noi sconosciuti.

Inside Out fa parte di quest’ultima categoria, e per certi versi ne rappresenta il coronamento. Quella di Riley, dodicenne che affronta l’arduo trasferimento dal Minnesota a San Francisco, è una storia perfettamente normale, persino banale: la nuova casa è deprimente, il trasloco genera tensione fra i genitori, l’inserimento a scuola provoca imbarazzi, e la ragazzina vive una tumultuosa catena di emozioni da cui non sa come districarsi. Ma la Pixar non è interessata alla mera descrizione dei fatti oggettivi, quanto ai loro retroscena; così, decide di raccontarci la verità segreta che si agita dietro a queste esperienze, e ci proietta nella testa di Riley per mostrarci l’attività delle sue emozioni primarie, ovviamente ritratte in veste antropomorfa. Gioia, Tristezza, Paura, Rabbia e Disgusto collaborano per gestire il rapporto di Riley con il mondo esterno, agendo in una sala di controllo da cui possono influenzare le sue reazioni e tutelare la sua incolumità fisica ed emotiva. Le conseguenze del trasloco, però, sono scioccanti, e l’antico status quo rischia di crollare quando i ricordi primari della ragazzina, un tempo felici, diventano malinconici, e Gioia si ritrova catapultata fuori dalla sala di controllo insieme a Tristezza.

Gli effetti si ripercuotono su Riley nella forma di un progressivo abbandono verso l’apatia, lo stato d’animo del disinteresse e dell’inerzia, sciagura tipicamente occidentale (e spesso adolescenziale) che Pete Docter reifica nel collasso delle molteplici “isole della personalità” in cui sono conservati i legami e le passioni della ragazzina, ovvero i tratti del suo carattere. La rappresentazione visiva di concetti teoricamente non rappresentabili fa di Inside Out un capolavoro dell’invenzione astratta, dove i processi cognitivi diventano l’espressione concreta di una realtà con regole e gerarchie autonome, ma sempre riconducibili a un sistema consolidato (un esempio per tutti: la locuzione train of thought – molto diffusa tra gli anglofoni – supera la sua connotazione verbale e diventa una vera e propria ferrovia che fa viaggiare i pensieri da un capo all’altro del cervello). C’è una tale quantità di idee, nel film Pixar, che si fatica a coglierle tutte dopo una sola visione: l’universo mentale di Riley è un geniale agglomerato di “sottomondi” che rispondono a funzioni precise (l’inconscio, l’immaginazione, la produzione dei sogni che somiglia a uno studio hollywoodiano…), popolati da una schiera di personaggi secondari che in alcuni casi assumono una statura monumentale: come lo struggente amico immaginario di Riley, Bing Bong, prodotto composito di una fantasia sregolata e fanciullesca, concepito durante l’infanzia e ormai dimenticato.

E proprio in Bing Bong è concentrato il cuore pulsante di Inside Out: attraverso l’esplorazione matura e autocosciente delle emozioni umane, il film delinea un percorso formativo delicatissimo che porta Riley (e le sue emozioni primarie) ad acquisire una nuova consapevolezza di sé, accettando l’idea che sia sempre necessario sacrificare qualcosa del proprio passato per sopravvivere alle ingerenze del futuro. Ciò che è andato perduto non si può recuperare, e i ricordi sono spesso contaminati da sentimenti contraddittori. L’accettazione di queste verità è un primo passo verso l’età adulta, dove le emozioni si fanno più complesse e la visione del mondo diventa meno manichea: alle soglie della pubertà, Riley si congeda dalla leggerezza dell’infanzia (incarnata dall’ottimismo e dall’entusiasmo di Gioia, fino a quel momento leader del centro di controllo) e si apre ai conflitti dell’adolescenza, dove i sentimenti divengono più sfumati, più sfaccettati e imprevedibili. La collaborazione tra Gioia e Tristezza – in passato considerate antitetiche – è l’emblema di questo cambiamento.

In tal modo, Pete Docter trasfigura la normalità dell’esperienza quotidiana nell’eccezionalità del racconto epico, costruendo un’opera meravigliosa, creativa e persino esilarante, ricca di battute verbali ma anche di gag slapstick che ricordano i Looney Tunes. E allora, l’epopea di Riley e delle sue emozioni primarie oltrepassa l’intimità del personaggio, si diffonde all’esterno e risuona come un’eco in tutti noi, nessuno escluso, dentro e fuori: Inside Out.

Inside Out è nelle sale italiane dal 16 settembre. Troverete altre informazioni sulla pagina facebook ufficiale.

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