Neill Blomkamp è uno dei pochi registi contemporanei che vedono nella fantascienza uno strumento sia d’evasione sia di riflessione, dimostrando di saper dosare il peso specifico di queste istanze creative in modo ragionato ed equilibrato. Dopo aver rielaborato il genere sci-fi per soffermarsi sui problemi della segregazione razziale (District 9) e della disuguaglianza sociale (Elysium), il regista sudafricano focalizza il suo sguardo sul tema della singolarità tecnologica, topos fantascientifico di nobili origini letterarie (Asimov, Philip Dick), dove le esigenze della speculazione e dell’intrattenimento trovano una sintesi pressoché impeccabile.
L’approccio da commedia rimanda direttamente all’immaginario di Corto circuito, e Chappie non è altro che un novello Johnny 5, candido e desideroso di input per alimentare il suo vasto intelletto computerizzato, ma costretto ad adottare misure estreme di fronte alla maligna banalità degli esseri umani. D’altra parte, il panorama urbano lascia poco spazio ad altre soluzioni: in una Johannesburg che si è ormai espansa ben oltre i confini della sostenibilità, rovinosa e decadente come le megalopoli di Judge Dredd, la polizia si affida agli efficienti robot del geniale Deon Wilson (Dev Patel), il cui obiettivo è la creazione della prima intelligenza artificiale senziente. Il risultato dei suoi esperimenti è Chappie, androide rottamato su cui Deon carica un nuovo software in grado di provare sentimenti, sperimentare emozioni, formulare opinioni e apprendere dall’esperienza. Chappie, però, finisce nelle mani di tre criminali spiantati (tra cui il duo rap-rave Die Antwoord) che lo educano alla “contro-cultura” gangster, facendone il proprio figlio adottivo. Contro di loro si scatenerà la violenza brutale di Vincent Moore (Hugh Jackman), inventore di un mech da guerra che opera attraverso gli impulsi neurali di un pilota umano, e mira a sostituire i robot di Deon nei contratti con la polizia.
Ancora una volta, l’estetica low-tech di Neill Blomkamp trova un terreno fertile nel contesto degli emarginati sociali, laddove il “margine” corrisponde anche a una posizione geografica, letterale: i personaggi di Humandroid vivono lontano dai grattaceli scintillanti della city, e si rifugiano in una giungla cementificata di superstrade, fabbriche dismesse e palazzoni cadenti, stabilendovi un microcosmo alternativo a quello “ufficiale”. La rivoluzione post-umana nasce in seno a questi outsider, in aperta polemica con il conservatorismo repressivo delle istituzioni. Vincent Moore, a tal proposito, coagula in sé una miscela venefica di fanatismo religioso (accusa il protagonista di essere una creatura «senza Dio») e militarismo reazionario (il suo robot, chiamato MOOSE, utilizza armamenti da guerra sul suolo metropolitano), opponendosi così allo spirito anarchico e individualista di Chappie.
La violenza nasce quindi come reazione alla brutalità umana, che corrompe la purezza infantile del robot con false promesse di eternità. Se inizialmente Chappie imita le pose, la gestualità, la prossemica e le espressioni verbali dei gangster per integrarsi nel loro ambiente familiare, l’epilogo di Humandroid tende invece ad affermare l’orgoglio autoconsapevole della creatura artificiale, che si dimostra moralmente superiore ai suoi “padri”: di fatto, Blomkamp costruisce una vera e propria “apologia del post-organico”, concepito in quanto ultima possibilità d’innocenza, territorio vergine dove riscoprire il candore primigenio della fanciullezza. Prendendo le distanze sia dal disincanto malinconico di Spike Jonze (I’m Here, Lei) sia dal pessimismo distopico di James Cameron (Terminator), il regista sudafricano predilige un approccio positivista, basato sull’idea che la carne possa farsi macchina, e viceversa. Non c’è retorica nel concetto di “creazione”, né timore spirituale verso la genesi di una nuova vita, ma solo un grande entusiasmo e altrettanta fiducia per il superamento dei limiti umani.
Naturalmente, questa riflessione sulle potenzialità dell’inorganico si fonde alle logiche spettacolari di una commedia d’azione, orchestrata da Blomkamp con la consueta perizia visiva: l’unione di effetti meccanici e digitali è molto raffinata, anche perché risulta sempre al servizio della caratterizzazione di Chappie, capace di esprimere emozioni molto “umane” attraverso gli occhi elettronici, la postura e i movimenti del corpo, spesso sfociando in situazioni buffe o paradossali. Plasmato dall’imperfezione dei genitori adottivi e dal talento del genio paterno, il robot realizza così la sintesi definitiva tra emotività e raziocinio, tra carne e metallo, delineando al contempo un orizzonte inedito per tutta l’umanità. Ciò che importa non è tanto la natura del corpo (organico, inorganico, ibrido), quanto la coscienza che lo abita.
Per maggiori informazioni su Humandroid – in uscita il 9 aprile nelle sale italiane – potete consultare la scheda del film sul sito Warner Bros., oppure le pagine facebook e twitter. #ChappieIT