Glee, il commento al tributo a Cory Monteith

Glee, il commento al tributo a Cory Monteith

Di emanuele.r

Attenzione, contiene spoiler.

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Era l’evento che tutti i fan di Glee non avrebbero mai voluto vedere, e che pure ha fatto catapultare alla tv quasi 8 milioni di spettatori, numeri che la serie non vedeva da tempo. Il terzo episodio della 5^ stagione porta la serie musicale di Fox – in Italia su SkyUno – in un’atmosfera funebre, quella con cui celebrare la morte di Cory Monteith, l’attore che per 4 anni ha interpretato Finn. Sei vecchi membri delle Nuove Direzioni (Rachel, Kurt,Puck, Santana, Mercedes e Mike) tornano a Lima per la scomparsa di Finn. Per onorare il ricordo dell’amico scomparso, Puck decide, con l’appoggio della coach Beiste, di entrare nell’aviazione americana. Nell’aula canto, i ragazzi appendono una fotografia di Finn recante la frase “The show must go… all over the place…or something” (“lo spettacolo deve andare … da qualche parte … o qualcosa del genere”).

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Scritto dai 3 creatori – Murphy, Brennan e Falchuk che dirige anche l’episodio -, Il Quarterback più che ricordare Monteith e il suo personaggio preferisce raccontare il dolore di chi l’ha perso. Idea giusta, ma messa in scena in modo decisamente discutibile.
Se infatti il motto dell’episodio dovrebbe essere quello di Sue, ossia “Non faremo del nostro dolore uno spettacolo egocentrico”, l’intera puntata sembra costruita per contraddire l’idea di base: aperta da Seasons of Love da Rent, cantata da tutto il cast, Il quarterback sembra voler dare a ogni personaggio un palco per mettere in scena il proprio dolore, attraverso musiche e piccole situazioni narrative fatte apposta per strappare la lacrima, anziché raccontare il dolore stesso e l’influenza di una persona scomparsa nelle vite di chi resta. Sembra più una gara a chi esprime più commozione che un racconto su quella stessa commozione, ed è una sensazione che lascia un po’ freddi oltre a essere discutibile tanto dal punto di vista umano che televisivo.

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Non a caso, le uniche due scene davvero riuscite e sincere sono quelle in cui si rinuncia allo strepito, al pianto forzato o all’urlo canterino: quella in cui Puck canta No Surrender di Springsteen e il dialogo tra Rachel e il professor Schuester nell’aula del Glee Club. Tutto il resto pare un pretesto per mettere in mostra il dolore e mettersi in mostra come interpreti, e non sembra il modo più adatto per ricordare qualcuno, per esempio non essendo reticenti sulle cause della morte, lasciando un suggerimento del tutto incongruo alla “fine che ha fatto” e alla musica come alternativa al “modo in cui è morto”. Peccato.

Commentate la recensione e restate su Screenweek ed Episode39.

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