Cinema Festival

Berlinale 2013 – Side Effects di Steven Soderbergh, la recensione

Pubblicato il 14 febbraio 2013 di Andrea D'Addio

Side Effects Rooney Mara Channing Tatum - Foto da Film

Alla fine a Steven Soderbergh non si può non volere almeno un pochino di bene. È vero che ogni volta che vedi un suo film non sai bene cosa aspettarti, se un capolavoro o una mezza boiata troppo intellettuale, troppo noiosa e pretenziosa, ma allo stesso tempo il suo modo di vivere il cinema in maniera così feconda, scavalcando generi, stili e spesso le sue stesse parole (quanti anni sono che dice che gli mancano solo due o tre film prima di ritirarsi?), è degno di ammirazione. Soderbergh è uno che quando vuole farti un film senza sbavature, ad uso e consumo del pubblico, te lo fa senza problemi. È questo il caso di Side Effects, un bel thriller, scritto, diretto ed interpretato bene, che fa quello che molto cinema contemporaneo non riesce più a fare: intrattenere in maniera intelligente.

Uno psichiatra si trova in cura una ragazza con gravi problemi di depressione. Il suo amato marito è appena uscito di galera, ma lei non riesce ad essere felice come vorrebbe, anzi tenta il suicidio. Un tragico evento (meglio non rivelare di più) cambia quest’equilibrio iniziale, creando un particolarissimo rapporto tra il medico e la giovane donna…

Side Effects Jude Law - Foto da Film

Scritto da quel Scott Z. Burns che ultimamente tanto lavora con Soderbergh (una buona collaborazione: The Informant, Contagion) e che tempo fa firmò uno dei migliori action movie degli ultimi dici anni (The Bourne Ultimatum di Paul Greengrass), Side Effects ha prima di tutto un merito se si parla di thriller: non ha buchi di sceneggiatura. Non è poco, soprattutto quando si parla di film con un finale a chiave. Soderbergh dirige il tutto con mano sicura, lasciando che script e attori veicolino il tutto. Non è una qualità scontata, né lo è la sua umilità del mettersi al servizio completo del film, quasi nascondendosi dietro di esso (parliamo di un premio Oscar per la regia). La scelta del cast non è banale, e se è coraggioso l’utilizzo part-time di un riempi-botteghino come Channing Tatum, sembra azzeccata anche la scelta di affidare a Jude Law (attore troppo poco utilizzato ad Hollywood) e Rooney Mara (ormai abbonata a ruoli psicologicamente borderline) le due parti principali. In definitiva un bel film, uno di quelli di cui magari non ci si ricorda il giorno dopo, ma che per quei cento minuti di durata ti tiene incollato alla poltrona senza mai rischiare di dare uno sguardo all’orologio.

ScreenWEEK è a Berlino per partecipare alla 63esima edizione del Festival. Seguiteci per tutte le novità e le recensioni dalla capitale tedesca.