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Venezia 69: Pinocchio, la recensione in anteprima

Pubblicato il 01 settembre 2012 di emanuele.r

Tra  titoli più attesi e annunciati più di recente, Pinocchio di Enzo D’Alò arriva alla 69^ mostra del cinema di Venezia nella sezione collaterale delle Giornate degli autori: un progetto lungamente caldeggiato dopo la pausa imposta dall’uscita del Pinocchio di Benigni e che ha portato il maestro dell’animazione italiana a far uscire il film nelle sale il prossimo natale, portandolo in anteprima al Lido.

La storia è arcinota, anche se qui l’ispirazione al romanzo di Collodi è più diretta rispetto ai classici Disney o altro: il falegname Geppetto per non restare solo si costruisce un bambino da un ciocco di legno parlante. Il “burattino” però è tutt’altro che obbediente e coinvolgerà il padre in avventure incredibili. Scritto da D’Alò con Umberto Marino, Pinocchio cerca di ritagliarsi un posto tra le infinite traduzioni della favola puntando molto sulle matite e i colori di Lorenzo Mattotti, praticamente un co-autore, e le musiche di Lucio Dalla, ma anche sull’immediatezza del racconto.

Che più di una storia sull’educazione di un bambino anarchico, nelle mani del regista diventa una piccola elegia sull’essere padre e sulla difficoltà di insegnare ai propri figli a essere uomini (e quindi bambini) in un mondo in cui la giustizia e l’onestà funzionano al contrario e il denaro pare l’unica autorità. D’Alò contamina l’onestà e l’umiltà del progetto, lo sguardo diretto ai più piccoli con l’ambizione di farne una sorta di Odissea – non a caso, ricorre il mare – che mescola la magia e la malinconia.

La breve durata costringe la sceneggiatura a fare i salti mortali e le costrizioni di racconto tolgono respiro soprattutto alla prima parte, ma poi Mattotti fa esplodere la propria fantasia, i colori invadono il film con tocchi onirici e il jazz sbilenco e fiabesco di Dalla li accompagna con leggerezza, così come le voci dei doppiatori che non irrompono con violenza ma tratteggiano con delicatezza, come Rocco Papaleo e Paolo Ruffini. D’Alò continua un percorso a suo modo invidiabile e ammirevole, anche se viene il sospetto che avrebbe bisogno di produzioni più coraggiose, che non costringano il film a 78 minuti quando ne servirebbero almeno 90.

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