Di solito, per i film italiani, il giudizio della stampa nostrana è sempre un po’ filtrato o dalla diffidenza di un cinema che non è all’altezza delle sue stagioni gloriose o dallo sciovinismo aziendalista di chi li fa o li pubblicizza. Per E’ stato il figlio, esordio in solitaria per Daniele Ciprì dopo anni di collaborazione con Franco Maresco, invece la reazione è stata calorosa, compatta e sincera: perché questa storia grottesca e sopra le righe ha saputo conquistare il pubblico.
Il film racconta della famiglia Ciraulo che riesce a tramutare la disperazione per la morte accidentale della figlioletta in gioia per il lauto rimborso concesso (impunemente) alle vittime della mafia. Ma le trafile burocratiche e la sete di denaro getteranno Nicola e i suoi cari nel caos. Scritto da Ciprì con Massimo Gaudioso e Miriam Rizzo dal romanzo omonimo di Roberto Alajmo, E’ stato il figlio è una storia fosca e violenta declinata dal regista in toni e colori che portano a una sorta di mix tra le atmosfere desolate di Cinico Tv e il cinema di Roberta Torre (per cui Ciprì più volte ha curato la fotografia).
Costruito sul concetto arcaico di racconto, caro alla cultura siciliana, il film racconta l’arrivo nell’Italia degli anni ’70 del consumismo, il sopraggiungere della follia dei sogni e bisogni imposti in un mondo che – con la Sicilia come cristallizzazione dell’intero paese – era ancori fuori dalla modernità, dalla civiltà contemporanea: Ciprì mette in scena, come suo stile impone, un’umanità sporca seppure non becera, sporca negli abiti e nei colori, ma anche nei rapporti con gli altri, dominata dal denaro seppure di soldi non si parla mai (ogni volta che si tocca l’argomento la macchina da presa si allontana, i rumori coprono il parlato).
Il gusto dei corpi e dei volti caratteristici sul filo del disfacimento si accompagna a una trasfigurazione stilistica che va dall’ironia grottesca all’onirico passando sempre per un senso della tragedia acuto e in fondo inquietante: Ciprì conferma anche da solo una mano e un polso non facili da eguagliare in Italia, nell’uso delle digressioni e variazioni, degli eccessi e dei comparti tecnici, degli attori che eccedono in modo anche un po’ macchiettistico – come Toni Servillo – o invece implodono dando il senso della tragedia, come il cileno Alfredo Castro, nel ruolo chiave e più desolato del film. E gli applausi non si sono fatti attendere.
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