È quasi difficile inanellare in un unico film la quantità di stereotipi, luoghi comuni (anche dal punto di vista prettamente estetico) e facili patetismi che si incontrano in Detachment – Il distacco, dell’apprezzato regista Tony Kaye. Un’opera dedicata alla scuola e al ruolo dell’insegnate, e per questo esposta sin dal principio a tutta una serie di trappole melodrammatiche e a un progressismo auto-compiaciuto che anche qui non manca di irrorare per bene tutto il racconto. Non saltano l’appello neppure le filippiche sul lavaggio del cervello operato dalla pubblicità, sul vampirismo delle scuole private, sugli orizzonti limitati dei giovani che non sanno cosa li aspetta nella vita e sbadigliano davanti alle grandi tragedie della storia come il Nazismo e la Seconda Guerra Mondiale (un portato del film che ha reso celebre il regista, American History X?). Temi a cui se ne aggiungono molti altri che portano impresso il marchio radical chic, mentre la scarsa rifinitura delle immagini grida fin troppo orgogliosamente all’indipendenza dell’opera e del suo realizzatore, ormai ben incasellato nella categoria non sempre così meritoria dei filmmaker “shock”. Se si gratta un po’ al di sotto della superficie, effettivamente molto ruvida, ci si accorge tuttavia di come Detachment – Il distacco nasconda anche dei lati meno scontati e più interessanti, in grado di restituire una sua dignità al film.
La storia, è quella del professore di letteratura Henry Barthes (che ha il volto dolente e meraviglioso di Adrien Brody), un uomo solitario, introverso e problematico, che vive il proprio lavoro come una missione, ma allo stesso tempo rifugge da qualsiasi legame profondo, anche con gli studenti. Nonostante la sua bravura, non ambisce a diventare un insegnate di ruolo e preferisce rimanere un eterno supplente. Se da un lato vive la sfida di guadagnarsi ogni volta la stima e la fiducia di nuovi studenti, dall’altra ama essere una figura che passa fugacemente nelle loro vite per lasciare un segno, magari ancora più incisivo di quello di un professore normale, che ha tutto il tempo di farsi odiare e cominciare a odiare a sua volta i propri alunni. Un atteggiamento che in realtà nasconde ferite molto profonde provenienti dal suo passato, e che influenza anche la sua vita privata, in cui non ci sono relazioni stabili. Quando viene mandato a insegnare in una degradata scuola pubblica di periferia, Henry è però costretto a mettersi alla prova molto più di quanto desideri: finisce infatti per far invaghire di sé una studentessa dal grande talento ma anche ipersensibile, già torturata da molti fantasmi personali. Come se non bastasse, poi, comincia a ospitare a casa sua una prostituta adolescente incontrata per caso, diventando pian piano la sua famiglia e il suo unico punto di riferimento.
Per essere un film incentrato sulla scuola, Detachment sviluppa delle sottotrame più originali e complesse del solito. Non tanto quella della studentessa bruttina che si infatua del professore dall’intelletto brillante, a cui si deve piuttosto il lato più melodrammatico e meno convincente del film. Parliamo piuttosto dei traumi infantili di Henry Barthes, molto più ingombranti di quelli generalmente attribuiti a questo tipo di personaggio, e allo stesso tempo trattati con grande flemma, con sovrabbondanza di flashback ma senza troppi patetismi, o quantomeno ben dosati. Si distingue invece per un’estrema dolcezza e delicatezza il ritratto di questo rapporto improbabile con la giovane prostituta, che finirà per diventare un mezzo di insperata riconciliazione con la vita dopo l’epilogo drammatico dell’ultima supplenza del prof. Barthes.
Più in generale, è molto interessante il tema del distacco che campeggia nel titolo e che domina tutto il film, a partire da una citazione in apertura da Lo Straniero di Albert Camus. Un incipit che vuole definire il personaggio di Henry e il suo disperato tentativo di distaccarsi da se stesso e dai propri spettri. Ma si tratta anche del distacco esistenziale che il protagonista tenta di mantenere nei confronti di una realtà che altrimenti gli risulterebbe insopportabile e indecifrabile, e allo stesso tempo è anche il distacco della regia, che riesce a mantenere sempre un tono piuttosto freddo nonostante il crescendo di episodi drammatici rappresentati nel film. Quella “giusta distanza” che tuttavia finisce per scemare sia nello stile che nel personaggio di Henry, destinato a venire risucchiato di nuovo nella vita e a ricongiungersi col suo lato umano, a lungo rinnegato in virtù di una missione intellettuale troppo teorica per il contesto delicatissimo in cui lui (ma in realtà ogni professore) si trova ad agire.
Dietro alla patina pessimistica e oscura che ricopre l’intero film, si nasconde perciò la narrazione di una flebile speranza, raccontata nel modo più inatteso possibile, e cioè proprio attraverso il dramma più banale e scontato che si possa consumare entro le mura scolastiche. Di sicuro è un modo contraddittorio di passare dall’esistenzialismo camusiano alla fiducia nell’umanità, propria e altrui, ma si tratta comunque di un percorso interessante che almeno riabilita Detachment dalla pretenziosità dell’operazione e delle sue premesse. Un percorso che tra l’altro potrebbe sottendere a un ragionamento più ampio sul ruolo del cinema e del filmmaker, parallelo a quello dell’insegnate, suggerito anche dal cognome del protagonista, che ci viene difficile non associare al semiologo Roland Barthes. Magari è un’interpretazione ingiustificata, e di sicuro contribuirà a rendere il film ancora più fastidioso per chi non ama l’unione tra il cinema (ancor più se indie) e un dissertare filosofeggiante per forza di cose approssimativo e sfuggente, ma forse vale la pena di lasciarsi trasportare dalla suggestione.
Detachment – Il distacco uscirà nelle sale italiane il 22 giugno, distribuito da Officine Ubu. Nel cast, oltre ad Adrien Brody, Christina Hendricks, James Caan, Lucy Liu e Marcia Gay Harden.