Diaz – Intervista al regista Daniele Vicari

Diaz – Intervista al regista Daniele Vicari

Di laura.c

Quando si ha a che fare con un tema come il G8 di Genova, è facile che si scivoli dal piano puramente cinematografico a quello politico, civile e sociale. Nel caso di Diaz – Don’t clean up this blood, il regista Daniele Vicari è però riuscito a far convivere e collaborare in maniera estremamente efficace queste due “anime” del film, che tendono a non prendere il sopravvento l’una sull’altra ma ad arricchirsi a vicenda, aggiungendo percorsi e significati ulteriori, rispetto alla “semplice” denuncia di un capitolo buio della nostra storia recente. Di questo aspetto abbiamo chiesto anche a Daniele Vicari in occasione della presentazione del film, che uscirà nelle nostre sale il 13 aprile dopo aver partecipato all’ultimo festival di Berlino.

Daniele Vicari, quello che è successo a Genova si sarebbe verificato anche in un altro momento storico e politico?

A questo proposito non bisogna dimenticare che pochi mesi prima, a Napoli, sono successe delle cose del tutto analoghe, e c’era un Governo di centrosinistra. Nella caserma Raniero sono state sequestrate delle persone, e uso questo termine perché non si è trattato di un arresto: la sentenza ha riconosciuto in seguito proprio il reato di sequestro di persona. Alcuni dei poliziotti condannati per quell’episodio sono stati condannati anche per Genova, perciò forse c’era dentro le istituzioni, e dentro la Polizia, una sorta di movimento che poi è esploso al G8 nella sua espressione più forte.  Lo dico come cittadino, perché il nostro è un film, non è certo un processo: se non si fa una riflessione profonda su questi temi e se non si prendono provvedimenti, queste cose possono accadere di nuovo. Perché un conto è un fatto isolato, un incidente, un’esagerazione di qualcuno che perde il controllo, un altro è il comportamento – passatemi l’espressione – coordinato e continuativo di molti poliziotti che in luoghi isolati, lontano dagli occhi indiscreti delle telecamere, si sentono autorizzati a devastare nel corpo e nello spirito centinaia di persone. La rimozione effettuata nell’ultimo decennio di questi fatti, unita al modus operandi delle istituzioni che ormai sono completamente staccate dai cittadini e prendono le decisioni sopra la loro testa, secondo me crea quel distacco da cui nascono distorsioni mostruose. Come appunto le forze di polizia usate come supplente nel rapporto tra lo Stato e i cittadini. Anche quelli che manifestano il proprio dissenso crudamente, e a volte violentemente, sono dei cittadini, e nel momento in cui vengono arrestati, perché magari stanno distruggendo delle vetrine, il codice penale prevede che siano trattati come tali. Non possono essere gettati nel tunnel della paura e uscirne ridotti come polpette: questa roba non fa parte della democrazia, e questa è la questione al centro del film. Noi abbiamo raccontato questa storia perché ci pone una domanda gigantesca sulla qualità della democrazia in cui viviamo. E il tema, il cuore profondo di questo racconto, è la paura che suscita in ciascuno di noi l’eventualità di perdere completamente il controllo dei principi democratici, di uscire fuori dalla democrazia e non sapere più che fine si farà. Per questo il film può essere considerato anche la metafora di una condizione esistenziale più generale, perché mi sembra che guardando fuori dai confini nazionali la situazione non sia migliore.

Colpisce nel film il senso di spaesamento di molti personaggi, soprattutto i poliziotti. Come l’agente interpretato da Claudio Santamaria, che è quello a fermare la violenza dei propri colleghi all’interno della Diaz.

Sì, assolutamente. Quando dico che questo non è un film contro la Polizia, non è per fargli pubblicità o per buonismo. Il personaggio di Claudio fa parte di un meccanismo molto più grande di lui, ma a un certo punto diventa anche il granello di sabbia all’interno dell’ingranaggio: forse perché scosso o forse per motivi del tutto razionali è quello che riesce a dire basta, e nel momento in cui lo fa, si dirada anche il Male assoluto che si è venuto a creare all’interno di quel luogo. Il Male diventa deserto, diventa silenzio, diventa sospensione. E questa cosa per me è fondamentale, perché io non credo che gli agenti coinvolti in questa vicenda fossero cattivi, così come non credo che i manifestanti che hanno preso le botte fossero buoni. Queste sono schematizzazioni che vanno bene per i bambini, ma per dei cittadini adulti un discorso del genere non ha alcun senso. Sono convinto che dentro ciascun poliziotto ci fosse un conflitto, e le persone con cui ho parlato, molte delle quali in divisa, me l’hanno confermato. Ho sentito, in forma del tutto anonima, sia le persone che sono state a Bolzaneto sia quelle della Diaz: non mi hanno detto nulla che non sia già negli atti dei processi, ma dal loro sguardo mi sono reso conto della grande difficoltà e dello spavento per la lenta presa di coscienza di ciò che è accaduto. Per questo mi auguro che questo film lo vedano molto persone in divisa, perché riguarda loro, la loro concezione del proprio lavoro. Che è un lavoro difficilissimo e spesso anche pericoloso. E se qualcuno penserà pregiudizialmente che sia un film contro la Polizia, secondo me perderà un’occasione di confrontarsi con qualcosa che potrebbe risultare utile per avviare un dibattito interno a questo mondo. È vero che i corpi sono organizzati in un certo modo e sono difficilmente permeabili dai cittadini, ma è anche vero che viviamo in un Paese dove il dibattito su questi temi è necessario, e possibile.

Un film per le persone in divisa, ma anche per i manifestanti.

In maniera spassionata, credo che a Genova sia stato messo in piedi un gioco molto pericoloso. Pericoloso per tutti. E a questo gioco in qualche modo si sono prestate un po’ tutte le componenti, più o meno consapevolmente. Quando si dichiara guerra, diciamo in maniera dadaista, a un esercito pronto a sparare, si deve anche essere consapevoli delle conseguenze, consapevoli che l’esercito può sparare.  Che a Genova ci sarebbe stata una guerra, poi, era evidente già dai mesi precedenti. C’è stata tutta una sequela di veline uscite sulla stampa che tendevano a terrorizzare la popolazione, mettevano in guardia contro i manifestanti che avrebbero gettato del sangue infetto sulla polizia, dicevano che ci sarebbe stato il morto in piazza.  Ed è stato il clima di guerra a contribuire a quella che Amnesty International ha definito La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Questo vale complessivamente per tutto ciò che è successo a Genova, ma in particolare per i fatti della Diaz e di Bolzaneto, dove l’Habeas corpus è diventato un concetto astratto.

Il set di questo film è stato particolarmente impegnativo, con diverse location, anche all’estero, migliaia di comparse, stuntmen… È stato difficile da gestire?

Il reparto regia era più grande del reparto produzione, perché l’organizzazione generale di un set così è molto complessa. Dal punto di vista produttivo è stato un impegno gigantesco, perché ingenti erano i mezzi a nostra disposizione e il loro coordinamento un lavoro enorme. Però è stato anche un grandissimo privilegio poter fare un film così, non capita spesso nella vita di un regista che i mezzi a propria disposizione siano esattamente adeguati al film che si vuole fare.

Come è scattata in la voglia di fare questo film?

La sceneggiatura è stata scritta dopo aver studiato gli atti dei processi, visto centinaia di ore di materiale e incontrato diversi testimoni. E ci siamo resi conto che il film avrebbe avuto senso solo così come lo vedrete sullo schermo, cioè con questa sua dimensione e la sua coralità. Un film classico, come un romanzo di formazione raccontato da un solo punto di vista, avrebbe significato tradire profondamente l’avvenimento che avevamo intenzione di raccontare. Infatti il film non è in tre atti, come la maggior parte di quelli che siamo abituati a vedere al cinema, ma ne ha cinque; non ha un protagonista ma una pluralità di personaggi. Il protagonista è la storia, non un personaggio o l’altro. Tutte queste caratteristiche servono proprio per restituire la complessità degli eventi.

Avete incontrato qualche problema burocratico?

No perché quando abbiamo tentato di fare sopralluoghi alla scuola Diaz, abbiamo capito presto che sarebbe stato tutto molto complicato, e che per girare le scene di massa e d’azione avremmo dovuto bloccare la città di Genova non per settimane ma per mesi. Così abbiamo deciso di girare a Bucarest dove abbiamo potuto ricostruire il set e giocare il nostro gioco liberamente. Ci siamo accorti di aver fatto bene quando siamo tornati a Genova per girare alcune delle scene restanti, e ci hanno sequestrato subito tutti i mezzi di scena, ancora prima di cominciare le riprese. In seguito abbiamo ricevuto le scuse del questore, ma non è stato un gran benvenuto. Mi sembrava però doveroso chiudere il film a Genova, ci tenevo anche moralmente. Non poteva mancare un rapporto con la città, anche per il coinvolgimento di tante comparse genovesi e di tanti attori che sono passati per la straordinaria scuola dello Stabile di Genova. Per me la città doveva essere nel film.

Hai detto tanti attori: in effetti, nonostante nomi importanti come Santamaria, Elio Germano e altri, non c’è nessuno che abbia una parte più importante rispetto all’altro.

Sì, il film è stato concepito in questa maniera: senza star, ma con tanti attori che interpretano con passione anche ruoli microscopici, che si sostanziano poi in uno sguardo, una scena, una battuta. È un film corale, e noi abbiamo svolto un lavoro di un anno per individuare tutti gli attori, che si sono sottoposti ripetutamente ai provini. Questi provini sono stati anche la base per costruire i personaggi, poiché non li abbiamo scelti solo per la loro bravura ma anche per il coinvolgimento emotivo ed etico nella storia. E questo vale tanto per gli attori italiani quanto per gli stranieri.

 

Il film, distribuito da Fandango, uscirà nelle sale il 13 aprile e vede, tra le altre, la partecipazione di Elio Germano, Claudio Santamaria, Rolando Ravello, Alessandro Roja, Jennifer Ulrich e Monica Birladeanu. Potete trovare la nostra recensione a questo link.

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