James Sveck è un adolescente newyorchese, rampollo di una famiglia alto-borghese che non riesce a spiegarsi la sua “diversità”. Il ragazzo infatti non lega con i coetanei, o con i propri genitori e la sorella se è per questo. Ama leggere, ma non andare alle feste, e soprattutto non vuole andare al college. Mentre tutti cercano di convincerlo che il college è l’unica strada possibile per lui, James tenta di trovare la sua vera identità, il suo io in una città popolata da milioni di persone che lui non riesce a capire.
C’è una scena in Un giorno questo dolore ti sarà utile, co-produzione italo-americana diretta da Roberto Faenza, che sintetizza perfettamente il film: non la riveleremo in dettaglio, perché è il flashback chiave per comprendere il trauma alla base dell’insicurezza del protagonista, ma basterà dire che Faenza mette a confronto James (interpretato dal giovane Toby Regbo) con alcuni coetanei. Lui, pulitino, intellettual-artistoide con la giacchetta e la frangia, amante della musica classica e della filosofia. Loro, brutti, sporchi, con orribili acconciature e amanti della marijuana. Una visione un po’ manichea, avete detto? Beh, sì, questo è il problema. I personaggi del film di Faenza, tratto da un best-seller di Peter Cameron, sono tutti così: tagliati con l’accetta e soffocati dai cliché.
Prendiamo il protagonista: James non si regge per più di due minuti, dopodiché scatta l’impulso di spaccargli quella faccia sbarbata. Tornando al flashback, quel “trauma” di cui abbiamo parlato alla fine si risolve in una questione ridicola come il dilemma che lo affligge: vado al college o compro una villetta e mi metto a leggere tanti tanti libri e faccio il falegname? Un bel problema, davvero. Da perderci il sonno. Come si può parteggiare per uno che affitta una suite da 700 dollari con la carta di credito della madre, proprietaria di una galleria d’arte? Che considera l’acquisto di una casa da 98.000 dollari e a 17 anni ha già un lavoro che glielo può permettere? Nell’America della crisi? Nel mondo della crisi?
L’unico punto a favore del film è che rimette in gioco il significato di normalità. Giustamente, James non accetta di essere criticato da una famiglia che ha i suoi bei problemi, da due genitori separati che avrebbero bisogno di qualche bella seduta di psicanalisi, ma decidono di mandarci lui. Ecco, qui c’è uno spiraglio: se Faenza avesse seguito maggiormente questa traccia avrebbe creato un protagonista con cui confrontarsi. Invece ne esce solo il ritratto di un ragazzetto viziato che si lamenta della sua fortuna. Ed è inaccettabile.
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