Sono stati due giorni piuttosto deludenti, qui a Venezia. Il motivo è che ho avuto la possibilità di vedere due film che attendevo, e in entrambi i casi non si sono rivelati all’altezza delle aspettative. Vediamoli insieme.
Come detto, grande attesa per questo titolo, non solo da parte mia. Tomas Alfredson, regista di Lasciami entrare, esordisce in lingua inglese con un thriller spionistico tratto da un romanzo di John Le Carré. Un cast maestoso di tutte le possibili facce british di ieri e oggi – Gary Oldman, John Hurt, Mark Strong, Colin Firth, Toby Jones, Ciaran Hinds, Tom Hardy, Benedict Cumberbatch e sicuramente qualcun altro che ho dimenticato – per una messa in scena notevole. La ricostruzione storica dell’Inghilterra della Guerra Fredda, fatta di colori smorzati tendenti al marrone, puzza di fumo e di vite tristi quanto il tempo, costantemente grigio. Alfredson decide per un tono dimesso, per un understatement che generalmente è estraneo alle spy story. Ma allora cosa non va?
Principalmente, il fatto che la pellicola è molto noiosa. Come dicevamo, bella l’idea dell’understatement, ma qui si va decisamente oltre nel rendere tutto estremamente sussurrato, asciuttissimo, col risultato che alla fine si sbadiglia più spesso di quanto ci si sorprende. Il finale è un po’ criptico, un po’ troppo, ma non è che la storia in sé sia difficile da seguire. E’ solo che è priva di mordente. Inoltre, i tanti attori, a parte Oldman e Cumberbatch, hanno parti minuscole e poco materiale per brillare. Cumberbatch è comunque una conferma (i fan di Sherlock lo sapevano già), mentre Oldman fa bene il suo lavoro, ma non emoziona mai troppo. Ci tengo comunque a dire che non sono un grande fan di questo tipo di intrighi, se voi lo siete magari apprezzerete.
Curioso il fatto che lo “himizu” sia una specie di talpa che vive in Giappone. Insomma, ieri è stato il giorno delle talpe, potremmo dire. In questo caso, avrei preferito essere io una talpa e potermi sprofondare nel terreno per fuggire dalla sala senza disturbare. Himizu parte benissimo: un sogno lacerante tra le rovine di un Giappone spazzato dallo tsunami. Le vite di un gruppo di persone che hanno perso tutto, in particolare il giovanissimo Sumida, che vive con la madre ed è perseguitato da un padre alcolizzato e buono a nulla. Sumida sogna la normalità, e così la sua compagna di classe Chazawa. Ma il Giappone è un posto letteralmente rivoltato sotto sopra, con i padri che vorrebbero vedere morti i loro figli e i figli che devono prendersi la responsabilità di guidare la nazione verso il futuro, ma non sanno come fare perché non hanno figure di riferimento.
Sono è purtroppo incerto sul cammino da intraprendere – ci sono momenti di realismo intervallati a visioni surreali, c’è la commedia e c’è la tragedia da lacrimoni – e soffoca il film con una regia pesante, stracarica di dettagli opprimenti, come se ogni singola scena dovesse portare quasi sovrimpresso alle immagini il sottotesto, che viene sbattuto in faccia allo spettatore a ogni secondo. Sono vuole assicurarsi che noi capiamo che il suo racconto è in realtà una grossa metafora della storia di un Paese abituato alle grandi sofferenze, alle catastrofi. Tsunami come Hiroshima. Lo si capisce già dalla prima scena, e non c’era davvero bisogno di ripeterlo per due ore.
Ma il festival non è ovviamente finito, per cui non abbattetevi e restate in attesa. Ne vedremo ancora delle belle, si spera.