L’Illusionista, la recensione

L’Illusionista, la recensione

Di Gabriele Niola

Lillusionista Poster ItaliaRegia: Sylvain Chomet
Durata: 80 minuti
Anno: 2010

Che Sylvain Chomet ci piaccia è indubbio. E dico appositamente “ci piaccia” e non “mi piaccia” perchè mi sembra che chiunque abbia avuto la possibilità e la fortuna di vedere Appuntamento a Belville non abbia potuto resistere al suo fascino retrò, alla sua delicatezza e alla sua garbata inventiva. Di più ancora Sylvain Chomet agisce su quelle corde che attendono solo d’essere pizzicate: è nostalgico, è come una volta, è sensibile, è europeo nelle ossa, è delicato, è sentimentale, è ironico, è insomma tutto quello che più ci rassicura pensare quando pensiamo a cosa ci dovrebbe piacere. In più Appuntamento a Belville era veramente bello.
Faccio questa precisazione perchè il fascino intrinseco dell’idea di cinema di animazione di Chomet è un’arma a doppio taglio. Una coperta calda quando tutto va bene e un tranello quando le cose vanno meno bene.

Inutile dire che secondo me in L’Illusionista le cose vanno meno bene. La sceneggiatura lo sappiamo ormai tutti era una vecchia idea mai realizzata di Jacques Tati, che la figlia ha consegnato a Chomet perchè “Solo tu puoi realizzarla” (giuro). E Chomet, che non è cretino, ha fatto tutto un film a forma di Tati a partire dal protagonista.
L’illusionista dunque è la poetica di Tati vista dagli occhi di Chomet, è una sua storia filtrata da quella sensibilità animata. Sembrava promettente ma il risultato è solamente un’impressione, una patina di sensibilità e delicatezza garbate che non va da nessuna parte.

C’è un’illusionista, un universo che sta finendo (quello degli intrattenitori vecchio stampo, ingenui e buoni come lui), c’è una storia d’amore innocente che non prevede l’attrazione fisica ma è para-filiale e c’è un mondo fatto di particolari, dettagli e situazioni tra il comico e l’empatico. Come dicevo Sylvain Chomet ci piace, fa tutto benissimo e riempie il suo film di invenzioni, idee e trovate simboliche (tutto il concetto di arte illusionista che si perde fa pensare subito al suo tipo di animazione). Però stavolta non c’è davvero molto più che la nostalgia e l’impressione di delicatezza. L’Illusionista ci dà quel che vorremmo tanto avere da un cartone di Sylvain Chomet (o dal cinema tout court se non si conosce già l’autore) ma in un pacchetto vuoto, ci garantisce che dentro ci sia tutto quello che abbiamo chiesto ma poi non lo apre.
Lo ripeto, Chomet è bravo, bravissimo e L’Illusionista non manca di mostrarlo, ma stavolta gira a vuoto e non si centra davvero il punto, persi appresso al fascino chometiano.

Chomet è davvero l’ultimo esponente di un certo modo di fare animazione? E’ la roccaforte della bidimensionalità artigianale o solo un bravo autore? Qui le altre critiche

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