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Cominciamo l’ultima sezione della nostra storia del Peplum con Spartacus (1960), imperdibile pietra miliare del kolossal storico americano, diretta da un nome che non ha bisogno di presentazioni: Stanley Kubrick. Spartacus nasce come creatura di Kirk Douglas, protagonista e produttore del film, che volle in un certo senso vendicarsi di William Wyler per non essere stato scelto come protagonista di Ben-Hur – ruolo che invece andò a Charlton Heston.
Kubrick rimpiazzò all’ultimo minuto Anthony Mann, che fece in tempo a girare la prima scena ma fu licenziato perché, secondo Douglas, era intimorito dalle proporzioni del film. Al suo posto, fu chiamato il trentenne Kubrick che, pur avendo allora poco potere contrattuale, licenziò il direttore della fotografia Russell Metty e prese il suo posto. Metty fu comunque accreditato, per motivi legali, e finì col vincere un Oscar per il “suo” lavoro! Douglas scelse Kubrick perché si era trovato bene a lavorare con lui in Orizzonti di gloria. Ma durante la lavorazione di Spartacus, le loro personalità si dimostrarono incompatibili al punto che alla fine delle riprese si odiavano, e Douglas arrivò a definire il regista una “talentuosa merda”.
Eppure, nonostante tutti i problemi e il fatto che la personalità registica di Kubrick è praticamente soffocata dalle imposizioni dei produttori, Spartacus ne esce come uno dei migliori e più moderni esempi di cinema colossale. Merito della grande interpretazione di Douglas, che infonde al suo personaggio un’aura tragica e un carisma da vero leader, che lo rende convincente nel ruolo di condottiero degli schiavi in rivolta contro la tirannia dei patrizi romani. Merito anche della sceneggiatura di Dalton Trumbo (tratta dal romanzo di Howard Fast), che scava con pochi tocchi essenziali nella psicologia dei personaggi, molto più di quanto si facesse nelle produzioni analoghe dell’epoca.
La regia di Kubrick è comunque solida, e qua e là affiora anche il suo rigore quasi “militare” nel maneggiare la macchina da presa (si veda la scena della battaglia decisiva tra Roma e gli schiavi). A servire una messa in scena spettacolare – Kubrick non girava mai in formato panoramico, ma fu costretto a fare un’eccezione – ci sono alcuni dei più bei fondali “matte” della storia del cinema, opera di Peter Ellenshaw, e scenografie mastodontiche di Alexander Golitzen, Eric Orbom, Russell A. Gausman e Julia Heron (vincitori dell’Oscar). Le scene di massa, poi, fanno davvero impressione a chi, oggi, è abituato a vedere le moltitudini ricostruite al computer: qui è tutto vero, e alcuni campi lunghissimi lasciano a bocca aperta.
Il cast di comprimari, infine, contribuisce ampiamente a rendere il film tanto appassionante: vedere Laurence Olivier, Tony Curtis, Peter Ustinov (premio Oscar), Jean Simmons e Herbert Lom in azione nello stesso film è un vero spettacolo.
La versione restaurata da Robert A. Harris nel 1991 re-introduce alcune scene che erano state tagliate prima dell’uscita originale. Tra queste, ci sono alcune immagini cruente sul campo di battaglia (immaginiamo soprattutto la breve sequenza in cui Spartaco amputa un braccio a uno dei soldati romani) e una splendida scena di dialogo tra Crasso (Olivier) e il suo schiavo Antonino (Curtis), nella quale il primo utilizza la metafora delle “ostriche” e delle “lumache” per spiegare al suo servo che le preferenze sessuali derivano dal gusto personale e non dalla moralità. Una scena che, se mostrata all’epoca, avrebbe probabilmente sollevato un putiferio.
In conclusione, Spartacus potrà anche essere il meno personale tra i film di Kubrick, ma di sicuro rimane come grande esempio della stagione d’oro del “sandalone” all’americana: una pellicola di rara potenza epica che, nonostante la durata considerevole, si beve come un bicchiere di acqua fresca in una torrida giornata sotto il sole della Tracia.
Nel prossimo appuntamento, parleremo naturalmente di Ben-Hur, il classico per eccellenza tra i kolossal storici.