Get Low, recensione dal Torino Film Festival

Get Low, recensione dal Torino Film Festival

Di Gabriele Farina

Eccolo qui! L’abbiamo trovato.
Get low è un film degno di cittadinanza al Torino Film Festival. Vado oltre e mi sbilancio prima di aver visto un sacco di altra roba: Get Low rischia di vincerlo il Torino Film Festival numero 27.

get-low

Felix Bush è un vecchio scorbutico e solitario. Da quarant’anni si è isolato nella sua proprietà in mezzo al bosco e non ha più incontrato nessuno. Vive talmente da solo che in casa ha una sola sedia.
Poi però decide che è il caso di riapparire in pubblico e vuole farlo in grande stile organizzando un funeral party col morto (lui) ancora in vita.
Per farlo si rivolge all’agenzia di pompe funebri del paese ed insieme organizzano una festa cui invitare tutti quanti. Ogni invitato però dovrà raccontare una storia che ha sentito dire sul conto del vecchio Felix.

Non vado oltre perchè è bene che vi godiate il film e la sua storia.
Get low è un film ironico, divertente, addirittura dissacrante.
Le battute si sprecano, si susseguono puntellando tutta la vicenda e fanno ridere e sorridere, ma sono soprattutto i personaggi a reggere il peso.

Felix è un fantastico Robert Duvall, scorbutico all’inverosimile all’inizio e capace di trasformarsi in simpatico e folgorante strada facendo. Interpretazione arguta e indimenticabile la sua, che non manca di strappare qualche lacrima.

Ma fantastiche sono anche le sue spalle, un Bill Murray nel ruolo dell’impresario funebre capace di caratterizzare il personaggio in maniera perfetta. Il signor Quinn è un po’ deluso dal suo lavoro (“Solo in questo paese non sanno morire”) e l’occasione che gli si presenta non può essere sprecata.
E molto bravo è anche Lucas Black, l’assistente di Quinn, l’unico che riesce a stabilire fin da subito un rapporto di fiducia col vecchio.

Dunque… abbiamo detto divertente e dissacrante… cosa dimentico?
Ah… beh… certo: misterioso.
Si, perchè ad un certo punto si capisce che in realtà Felix organizza il funerale non per sentire raccontare storie su di se, ma per raccontare egli stesso il terribile segreto che da quarant’anni si porta dietro e che l’ha spinto ad isolarsi quasi come in prigione.
E vi assicuro che la storia è organizzata così bene che alla fine ci si ritrova a fremere in attesa della rivelazione finale.
E quando questa arriva è inevitabile sentirsi stringere il cuore per la drammaticità della situazione e per una vita buttata via come punizione autoimposta.

Complimenti quindi ad Aaron Schneider che riesce anche a creare un’atmosfera magnifica e godibile ricreando un perfetto paese americano degli anni 30 (?).
Schneider è al primo lungometraggio della sua carriera ma ha alle spalle un Oscar per il corto Two Soldier nel 2003.
Facile quindi prevedere una lunga e speriamo felice carriera.

soloparolesparse

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